We told motherfuckers not to lump us in with nu metal because when those bands go down we aren't going to be with them”: così Chino Moreno, in occasione dell’uscita di “Deftones” (2003), voleva dissociare la sua band da un fenomeno massificato ed effimero come il nu metal. Secondo lui, la loro musica non è una moda standardizzata e destinata ad un rapido declino.

Dopo quasi un decennio, il tempo sembra dargli ragione. Il gruppo aveva corso il rischio di smentire l’affermazione del loro frontman toccando il fondo con il mediocre “Saturday Night Wrist” (2006), ma poi risalì in grande stile con l’ottimo “Diamond Eyes” (2010) e ora con la consustanziale ultima fatica, “Koi No Yokan”, pubblicata lo scorso novembre, si riconferma decisamente ai piani alti. Proprio di questo si tratta: non una novità assoluta, ma una gradita conferma. Già, perché onestamente tutto ciò che è contenuto in questo disco è già stato sentito nel corso della discografia deftoniana, dalla prima all’ultima nota, dalle consuete ritmiche un po’ helmetiane (“Poltergeist”, “Goon Squad”) ai sapori synth che affiorano qua e là, specialmente nella seconda parte. I Deftones sono ripetitivi? In un certo senso sì, ma con che stile! Tutto è ancora così ammaliante, vitale, bello. Forse le dinamiche e le strutture non sono più sorprendenti ed imprevedibili come una volta, ma sanno ancora affascinare e convincere. Del resto, è proprio necessario reinventarsi ogni volta, cambiare e sperimentare sempre, quando si è comunque stati a proprio tempo uno dei gruppi più originali ed interessanti nel proprio genere? In verità no, a patto di non coricarsi sugli allori. Cosa che di certo non hanno fatto i cinque di Sacramento (con Sergio Vega ancora una volta, dopo “Diamond Eyes”, al posto del povero Chi Cheng). Diciamo piuttosto che i Defones sono rimasti fedeli a loro stessi, proponendo musica di qualità pur non offrendo chissà quali innovazioni.

Lo stato di forma smagliante traspare subito dalla bella opener “Swerve City”, mirabile esempio di come solo loro sappiano coniugare potenti grooves moderni e suadenti melodie vocali. Forse neanche la canzone migliore, che potrebbe essere uno degli straordinari singoli Leathers  Tempest” , corposi e ricchi di sfumature, tra i pezzi più elaborati dell’album (fatto un po’ paradossale per dei potenziali hit). Meritano comunque una menzione le inquiete suggestioni di “Romantic Dreams” e “Graphic Nature”, l’industrial ballad “Entombed” e quel poderoso midtempo che è “Rosemary”.

Accade spesso che certi musicisti, dopo aver raggiunto l’apice creativo, continuino la loro carriera per inerzia, pubblicando via via album sempre più trascurabili. Non è così per i Nostri: proprio come il suo predecessore, questo “Koi No Yokan” non aggiunge nulla alla loro storia, eppure, dal punto di vista prettamente sonoro, regge bene il confronto con il passato, dotato com’è di brillantezza e ispirazione non facili da trovare in una band con circa vent’anni di carriera e alla settima uscita discografica. Uno di quei dischi che riascolterò con piacere anche in futuro e che di certo non finirà tristemente ad ammucchiare polvere sugli scaffali.

Chissà, infine, a cosa si riferissero i Deftones quando hanno scelto come titolo un’espressione giapponese che significa “premonizione d’amore”… Se hanno ancora una volta previsto, senza falsa modestia, che non sarebbero finiti nel dimenticatoio e che noi fan li avremmo amati ancora, come prima e più di prima, allora hanno avuto ancora una volta ragione. Teniamoceli stretti!

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