Tra i tanti piccoli o grandi miti creatisi presso gli appassionati di musica rock e di chitarristi, quello relativo a quest’opera per me è sempre stato spunto di personale rifiuto del pensiero dominante, dato il mio convinto giudizio di mediocrità su di essa. “Layla” la canzone è un capolavoro, senza la quale “Layla” il disco si ridurrebbe allo stato di completa soprassedibilità, in linea con il fiasco commerciale che a suo tempo gli occorse.

Premetto che ritengo Clapton ottimo chitarrista, elegante pulito e fluido. Ciononostante, la fama e la stima abnorme di cui ha sempre goduto ad onta dei suoi limiti me lo fanno inquadrare come, in assoluto, il più sovrastimato axeman dell’intera storia del rock. Vi è una vera legione di suoi colleghi che mi ha dato e mi continua a dare di più, anche rimanendo nello stretto ambito rock blues, più o meno pop, più o meno hard.

Senza scomodare i soliti Hendrix, Page, Beck, Gilmour e qualche altro coi quali se l’è sempre giocata ai vertici delle classifiche di categoria, sparo per i più smaliziati una piccola sfilza di nomi, i primi che mi vengono in mente, di gente che ha suonato, e in diversi casi suona ancora, la chitarra rock blues in maniera più interessante e avvincente di Eric, e questo per una costellazione di ragioni diverse, a richiesta esplicabili caso per caso: Gibbons, Trower, Moore, Kossoff, Winter, Gallagher, Bonamassa, Angus, Bailey, Ralphs, Schon, Starr, Dharma, Scholz, Ronson, Halsall, McCarty, Nielsen, Kath, Blackmore, Morse, Walsh, Price, Thomasson, Campbell, Burns, Vaughan, Powell…

La carriera di Clapton è divisa in due fasi nettamente distinte come importanza ed interesse. Dal 1964 e per un quinquennio il giovane Eric è sacrosantamente all’avanguardia; suona il nuovo blues britannico con Yardbirds, Mayall, Cream e Blind Faith e lo fa con uno stile e un’efficacia, per i tempi, eccellenti pur con qualche eccessiva autoindulgenza specie nei Cream. Con questi ultimi inoltre inizia la sua convivenza con le componenti pop, psichedeliche, jazz introdotte dai suoi compagni, in particolare dal di lui ben più poliedrico Jack Bruce. Lo stesso gli succede nei Blind Faith, nei quali a dettare la linea è più che altro Steve Winwood che canta e compone meglio.

Finiti i Cream e se si vuole anche i Blind Faith, finisce la figura di Clapton di autentica importanza per la chitarra e per il rock. Dopo aver insistito per anni allo spasimo per suonare quanto più possibile i classici blues dei maestri neri, rompendo le scatole a compagni, musicisti e produttori che gli ripetono che così si ghettizza in un binario morto mentre il rock è lì che sta esplodendo in mille stili e colori diversi, finisce per sbroccare purtroppo per sempre, innamorandosi (oltre che della donna d’altri, ma può capitare) di un genere che fa della mediocrità la sua essenza.

Trattasi di quella roba definibile root oppure americana, non so, quella pappa rhythm & blues leggera, yankee al 100%, che gira sempre per gli stessi accordi e melodie ma non con la dignità, il fascino, la profondità del vero blues, bensì con il manierismo e la banalità di quello fatto da gente bianca che non ha l’estro per uscire con cose autenticamente ficcanti e incisive. Succede che Clapton, mentre gira gli USA coi Blind Faith, faccia comunella con i famigerati Delaney & Bonnie Bramlett, una coppia che vivacchia appunto con questa roba rhythm&blues senza palle che gira sempre uguale. Come riferimento, si può pensare alla porzione più scarsa e riempitiva dei repertori di un Tom Petty o di uno Springsteen.

Così, nel 1970, Eric esordisce da solista con un album omonimo ed anonimo, accompagnato dai nuovi amici musici americani che si dividono fra insignificanti (la coppia Bramlett) e bravi mestieranti (più o meno tutti gli altri loro accompagnatori). Il disco vende giustamente poche copie, ma è indicativo il fatto che in esso sia già contenuto, al 100%, il modello di musica che il chitarrista seguirà d’ora in avanti in carriera ovvero, e qui mi ripeto spero per l’ultima volta, pop/rhythm&blues sciapotto salvo rare eccezioni, affiancato ogni tanto da qualche cover di vecchio blues, tanto per non perdere di vista gli amori adolescenziali.

Ed eccoci a quest’album, il suo secondo di carriera (1971) anche se psicoticamente non se lo intesta suo nome. Clapton vi fa dunque suonare (e comporre, e cantare) gli accompagnatori di Bonnie & Delaney, nello stile manieristico e generico a cui sono abituati. Anche il suono, la produzione, sono deboli: c’è poco “fondo”, poca presenza, tutto suona sottile e senza spinta, quasi jingle jangle come nei dischi dei Byrds o di tanti altri popparoli mezzi country. Roba rispettabile, per carità, ma in giro ci sono già da un pezzo i dischi dei Led Zeppelin, dei Free, dei Cactus, del Jeff beck Group, che al di là della consistenza motivica (Cactus esclusi) suonano forti, profondi, sonori, dinamici, e lo stesso Clapton dei Cream era ben più abrasivo e “pericoloso”, coi suoi ampli Marshall settati belli alti e il distorsore sempre premuto.

E veniamo allo spinoso capitolo Duane Allman a mio parere altro ottimo, ma a sua volta sovrastimato musicista. Ci si riempie la bocca, fra appassionati, sulle presunte magie del povero Duane (morirà giovane in un incidente colla moto) coi suoi Allman Brothers e pure in questo disco. Alle mie orecchie egli era solo un bravo suonatore di chitarra slide, ma anche qui ne conto decine che mi stanno a cuore più di lui (Price, Walsh, Winter, Gallagher, Trucks…).

In questo disco Duane, coinvolto lì per lì da Clapton dopo che si erano appena conosciuti nei camerini di un concerto degli Allman, non combina niente di epocale tranne un’unica, importantissima eccezione, e qui si ricasca nuovamente nella solita “Layla” (la canzone), la perla in un vaso di biglie di vetro. Il baffuto Allman prende lo shuffle acustico composto da Eric (esattamente quello poi riciclato negli anni novanta e finito nel vendutissimo disco “Unplugged”) e lo rivolta come un calzino, quasi raddoppiandone il tempo ed inventandosi il fenomenale riff di chitarra sotto il ritornello. La celata dichiarazione d’amore alla moglie di Harrison contenuta nelle liriche diventa così, da malinconico lamento, un focoso grido di dolore ed il testo trova in questo modo la sua perfetta cornice musicale.

L’opportunista Clapton prosegue poi nel suo vizio/bisogno di appoggiarsi a compositori esterni, addirittura al suo batterista nell’occasione: la coda di “Layla” è in effetti composta e suonata al piano da Jim Gordon e si sente che vi è un non-pianista in azione, perché il tocco sui tasti è assai modesto (melodia ed armonia sono comunque stupende). Il rinomato Duane pasticcia parecchio colla slide in questa lunga coda di “Layla”, stonando qua e là in maniera anche fastidiosa, per chi sa ascoltare. Il suo contributo abbisognava di qualche take in più, ma forse non c’era tempo, gli Allman Brothers erano in tournée e Clapton ebbe Duane disponibile per due sole nottate in studio. E si sente: in quest’opera il biondo di Macon suona in undici delle quattordici canzoni e, dico, non vi è nient’altro di veramente memorabile da parte sua in questi solchi (o bit, nel formato digitale), oltre a quanto già sopra descritto.

Riporto all’uopo una dichiarazione di Bobby Whitlock, il tastierista di Clapton in quest’album nonché il compositore di tre quarti delle relative musiche originali (neanche tante…, su quattordici pezzi presenti ben sei sono cover ed Allman non è accreditato fra gli autori di “Layla”): “He played with us twice, and it was not good both times he played, because he was not a fluid player, a structured player. He could play parts, but he couldn’t sing with his guitar… He was a lovely guy, but he was unnecessary”.

E già, Eric Clapton non è mai stato prolifico compositore, quasi tutti i suoi maggiori successi sono cover. Si è appoggiato a Bob Marley, a J.J. Cale, a Jack Bruce, ad Harrison (“Badge”), a Robert Cray (“Old Love”, stupenda!)… Nulla di male, anche Jeff Beck non era gran compositore, però come suonava… mamma mia! Qualche bella canzone, ovviamente, in sessanta anni di carriera, decine di dischi e centinaia di pezzi, gli appartiene al 100%, ma poche. In quest’opera si appoggia dunque al buon Whitlock, pianista americano; anche per quanto riguarda il canto, ancora insicuro ma migliorerà.

“Layla” l’album è pienamente del valore, modesto, di tantissimi altri lavori di Clapton, né più né meno; tutti farciti di cover, con rispettose e quindi inutili riproposizioni di vecchio blues dei maestri neri americani, suonati troppo manieristi e leggeri, senza il mordente e la produzione sonora forte e scavante del miglior British Blues. La magia del quale sta nella contaminazione delle puro blues dei maestri neri con gli umori musicali della vecchia Europa, con l’aggiunta di psichedelia, folk, glam urbano, classica e opera, persino Medio Oriente come hanno fatto i Led Zeppelin.

Clapton è un chitarrista che non “canta”, non va da qui a lì in un solo, resta sul posto, non aggiunge molta melodia. Suona per licks, per brevi e cicliche frasi musicali. Ne conosce un tot a menadito, le richiama una per una, ne fa una macedonia ed il solo è fatto. Nulla di male anche in questo… anche Angus Young fa così negli Ac-Dc, per dire. Epperò, che diavolo di chitarrista ritmico è Angus?! Che portento di economia applicata alla chitarra, di staccati feroci, di dominio delle dinamiche di una partitura chitarristica! Lo amo, e non c’è confronto col corretto ma blando Clapton.

Eric è elegante scorrevole e preciso, ma mi annoia pure, e da sempre. Da quegli assoli di dieci minuti coi Cream nei quali faceva a sportellate con Bruce e Baker per primeggiare e non la finiva più. Unico suo solo superlativo di quei tempi è quello di “Crossroads” dal vivo. Quello si che canta! Che s’era tirato quella sera? Beninteso, mi riferisco alla “Crossroads” di “Wheels of Fire”, perché quell’altra al concerto di addio alla Royal Albertt Hall fa schifo. Un pò come tutto il concerto, in cui è palese quanto siano scazzati e finiti i tre galletti.

Ce l’ho “Layla”, naturalmente, insieme a tre o quattro altri dischi del buon Eric e a tutti quelli dei Cream e Blind Faith. Mica è porcheria, anzi! E’ il mito che accompagna quest’album che non mi tange neanche un poco.

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