"No Country for Old Men"
Sarà che mi sono svegliato male. Sarà che ho appena letto l'editoriale di Carlo Cimmino. Sarà che sono quasi ventitre anni che vivo impantanato in questa società disgustosa e perversa, come un gabbiano intrappolato nel petrolio; una sfortunata incarnazione di quel Jonathan Livingston che, invece di piroettare fra le nuvole, affogherà nel liquido nero che gli umani hanno così premurosamente cosparso su tutto il suo habitat naturale. Sarà, semplicemente, che ho bisogno di sfogarmi, scrivendo parole e concetti scontati e inutili, che non cambieranno niente di niente.
Questa non è una realtà per vecchi. Niente profonde riflessioni di fronte ad un fiore che sboccia, nessuna storia raccontata ai bambini che si rincorrono in un cortile, non una sapiente partita a scacchi di fronte al camino, neanche un minuto perso a contemplare un cielo dipinto dalle calde sfumature del tramonto. Idiozie. Questo è un mondo costruito su misura per i giovani. Quelli che non hanno tempo da perdere. Coloro che alimenteranno il futuro seguendo le regole con le quali sono stati quotidianamente indottrinati dal nostro corrotto e cancerogeno sistema. I vincenti che finiranno di avvelenare questo pianeta a suon di guerre fratricide, capricci idealistici o religiosi e meschine lotte politiche all'insegna dell'infantilismo e dell'illusorio guadagno personale.
Ogni mezzo è buono per fare propaganda. Ecco come viene a crearsi, tra gli altri, un universo musicale distorto, in cui le note sono l'ultima ruota del carro, mentre ciò che conta sono le parole forti ed intolleranti, i gesti virili, un'intraprendenza sessuale estremizzata e nauseante, una gamma infinita di automobili, gioielli e qualche pistola di grosso calibro, giusto per rendere l'idea cristallina. Sesso, droga e denaro. Il "rock'n'roll" ormai non fa più parte del menù del giorno. Fortunatamente, in qualche vecchia trattoria, c'è ancora qualcuno che ce lo aggiunge a matita, pronto però a cancellarlo repentinamente all'entrata di una qualsiasi guardia di finanza, in famelica ricerca della minima irregolarità.
Una di queste locande si trova a Brighton ed i suoi gestori, caso più unico che raro, hanno avuto il fegato di entrare in attività l'anno scorso, proponendo una cucina principalmente a base di piatti tipici dell'Inghilterra dei '60-'70, tra i quali segnaliamo un'ottima insalata mista jazz-rock, una grigliata piccante dal sapore hard, una torta salata condita con spezie dal gusto psych (con conseguenti effetti collaterali) ed uno stufato progressive degno delle leggendarie tavole della corte del Re Cremisi. "Diagonal" (questo il nome del locale) vede lo svolgersi, al proprio interno, delle prodezze di un coraggiosissimo settetto, il quale, equipaggiato di tutto punto, tenta di mantenere viva, nel suo forno creativo, quella sacra fiamma d'arte e d'ispirazione che le fredde intemperie generate dalla nostra "evoluta" organizzazione sociale, hanno più volte cercato di estinguere mediante infami vigliaccate, ogni giorno più castranti e pericolose.
Questa prima ricetta omonima stupisce per ogni suo ingrediente: dall'indiscusso carattere e la giusta dose di grinta, palesata dai ruggiti delle feroci chitarre di David Wileman e Nicholas Richards, nonché dalla stoffa del poliedrico ed abilissimo batterista Luke Foster ("Semi Permeable Men-Brain"), fino ad una coinvolgente e a tratti disarmante espressività, magistralmente incastonata in struggenti e sommessi lamenti, esalati dal clarinetto di Nicholas Whittaker, durante un commovente abbraccio con il pianoforte, suggellante l'inizio di un avvincente viaggio, destinato a risolversi nel caos provocato dalle esplosioni e dai suoni lancinanti generati dal sintetizzatore di Ross Hossack ("Child of the Thundercloth").
Forse l'aspetto che incanta maggiormente in quest'opera è l'intelligente e personale utilizzo dei più disparati elementi caratteristici del genere progressivo, incarnati in un sound curato e moderno, ma stilisticamente rivolti verso un passato remoto, in cui non sarebbe apparsa minimamente fuori luogo la voce calda e tormentata del tastierista Alex Crispin, impegnato nella celebrazione di un lungo rito cantilenante, che prima trova il suo apparente culmine nell'ariosità del sassofono ("Deathwatch") e poi, dopo essere stato interrotto da una danza dalla scenografia spaziale eseguita dal basso fluido di Daniel Pomlett e dalle due chitarre ("Cannon Missfire"), esprime la sua natura soave ed elegiaca grazie a sottili trame di derivazione ambient, che tessono delicatamente un inno mistico, memore delle più spirituali tradizioni cosmiche; una preghiera sussurrata dal vento, consanguinea della celestiale Osanna di Florian Fricke ed officiata nel "mondo fluttuante" di Karl Jenkins ("Pact").
Durante l'inaugurazione della taverna appena recensita, è stato servito un doppio antipasto, evidenziante gli aspetti estremi della band, da una parte agguerrita a cavallo delle chitarre e dei fiati ("Heavy Language") e dall'altra distesa sulle riflessive onde prodotte dal sintetizzatore ("Milankovitch Cycles"). Entrambi i lati dell'EP possono essere degustati gratuitamente al buffet, insieme a qualche stuzzichino dimostrativo di quell'LP che mi auguro sentitamente essere il primo di una lunga serie; la meritatissima consacrazione di un gruppo che spero abbia la possibilità, a dispetto delle criminali restrizioni di oggigiorno, di esprimersi proponendo un'arte genuina e sincera, difendendo strenuamente quella flebile fiamma che rischia ormai di svanire, lasciando tutti noi, irrequieti e screditati sognatori, a stringere nient'altro che un pugno di cenere.
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