Sì, ci hanno provato anche loro.
Tra le tantissime band di pop melodico italiano nate, cresciute e spesso anche decedute a cavallo tra i ’60 e i ’70, molte si sono cimentate nel progressive, l’approccio talvolta veniva centrato in pieno, vedi ad esempio I Giganti, Nino Ferrer, per certi versi gli Alunni del Sole e l’Equipe 84, persino Battisti e i Pooh. Altri, forse per mancanza di basi hanno sparato per così dire un po’ a vuoto, almeno commercialmente parlando.
E’ il caso dei Dik Dik che nel 1972 tentarono di fare il “salto” e, supportati da una serie di testi di notevole fattura di Herbert Pagani, si misero a lavorare su svariate idee scritte da Mario Totaro, tastierista e principale compositore della band. Il concept album, dall’arzigogolato titolo, uscì nel 1972 e risultò piuttosto distante da ciò che il pubblico dei Dik Dik era abituato ad ascoltare, così i fan lo snobbarono e gli amanti del prog, visto il nome e i precedenti, fecero altrettanto.
Non stiamo parlando di progressive tout-court, forse è più corretto mantenere presente il concetto di pop melodico con intrusioni sinfoniche e spiragli prog, ma il solo fatto che i brani, pur brevi, non fossero vere e proprie canzoni con le loro strofe e i loro ritornelli, scombussolò un po’ il pubblico e tutto venne vissuto come un “cambiamento di rotta”, che determinò, prima il deciso fallimento commerciale con vendite ridicole, una repentina virata sui loro passi e un netto ritorno alla canzonetta melodica di facile presa, nelle forme ben conosciamo.
Il disco presentava, inoltre, una copertina piuttosto anomala, poco accattivante e non troppo di buon gusto e, anche questo, contribuì a far cadere il disco nel dimenticatoio. Questo è confermato dalla mancanza di ristampe importanti, almeno fino al 2003, anno in cui la BMG digitalizzo l’opera, ma la tiratura fu in numero così basso che dopo pochi mesi risultò già esaurita. Esistono poi alcune ristampe asiatiche (Corea e Giappone), ma, di fatto, il disco sul mercato è quasi introvabile.
Il concept è in pratica un percorso all’interno del corpo e della mente della donna, secondo una visuale molto poetica e ricca di devozione, a tratti ingenua, verso il genere femminile, i brani, come d’uso, scorrono per intero senza soluzione di continuità generando una mega suite di circa 40 minuti.
Analizzando nel dettaglio l’aspetto musicale si può tranquillamente affermare che il lavoro è buono: la composizione è coerente e pur prevalendo l’indirizzo melodico le parti sono interessanti e ben intersecate, con innesti ben fluidi, determinati anche dall’ottimo arrangiamento generale. Nel complesso tutto è ben suonato e cantato, così, facendo un tutt’uno con le premesse dette in fatto compositivo e di arrangiamenti, viene da pensare che il tentativo sia fallito semplicemente per i trascorsi troppo da “balera” dei Dik Dik, che qui invece ci fanno assaporare quello che poteva essere, ma non è mai stato.
Musicalmente, partendo tutto dalla composizione tastieristica, salta ben chiara all’orecchio l’ispirazione principale, che è chiaramente riconducibile ai Procol Harum e diversi sono momenti di richiamo alla forza di impatto del gruppo inglese, maestosi ma non pomposi, ricchi ma non ridondanti. Questo si evidenzia soprattutto in brani come “Donna paesaggio” o “Il viso” e ancor più nelle cavalcate organistiche de “Le gambe”. Più delicate e intimistiche altre parti come ne “I sogni”, altre lievemente più sperimentali e tipicamente più prog, come “La cattedrale dell’amore” o “La notte”. Chiusura del disco tipica con la ripresa dei concetti principali del disco e degli elementi melodici che lo hanno contraddistinto.
Io credo sia bello ed importante poter dare ad gruppo una seconda chance, anche a distanza di tantissimi anni e forse anche quando a loro non possa più interessare. Ma riconoscere un momento di “grandezza” ad un gruppo che troppi e troppo spicciamente hanno relegato alla balera da cui erano partiti, credo sia un gesto positivo, che questo lavoro con la sua carica emotiva, sensuale e malinconica, in effetti merita.
p.a.p.
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