Dopo i controversi fendenti metallici del discusso “Train of thought”, i cinque newyorchesi optano per riprendere sonorità canoniche, creando un lavoro più versatile, che rassicurerà certamente chi ha disprezzato le oscure divagazioni della precedente fatica dei Nostri.
L’album in questione, a differenza di altri lavori, non è articolato come un concept, salvo il ricorrere di alcuni motivi musicali: questa peculiarità, insieme alla scelta di valorizzare le singole canzoni invece della complessità dell’album lo accosta ad un capitolo come “Fallin’ Into Infinity”; la volontà di sfoltire alcune prolissità tipiche del gruppo offre un’impronta più diretta all’intero spettro dei brani, senza dimenticare le proprie derivazioni prog. Questo approccio si rivelerà, come vedremo, un’arma a doppio taglio per il complesso, che nelle più recenti pubblicazioni ha lasciato più spazio a labirintiche elucubrazioni strumentistiche piuttosto che all’idea-canzone.

L’apertura è affidata alla rovente “The root of all evil”, che già dalle prime battute segna l’eredità proveniente da brani come “The glass prison” o “This dying soul”, dei quali mantiene intatto lo scheletro, con la classica apertura imperniata su un cupo riff in crescendo che sfocia nella rabbia del cantato.
Il clima si stempera immediatamente con la soffice “The answer lies within”, che ricorda da vicino “Throught my words”, anch’essa essa sostenuta da poche note di piano e dalla calda voce di Labrie, anche se sotto la malinconia della superficie il pezzo sembra eccessivamente schematizzato e sostenuto da un’idea già sfruttata più volte dal gruppo. L’atmosfera si fa nuovamente incalzante con il terzo brano, “These walls”, che risente dell’influenza di band attuali, per ritornare leggera con “I walk beside you”, brano che a tutti gli effetti risulta un tributo agli U2, e a tratti ricorda una “Innocence faded” più commerciale, risultando tuttavia una parentesi gradevole in un album estremamente vario.
“Panick attack”, uno dei momenti migliori e certamente più aggressivi del disco palesa la continuità con il precedenti lavoro, con un’apertura da brivido ed una metrica rigida e potente; il pezzo si rivelerà il tema portante del lavoro, che riaccennerà più volte questo motivo in chiusura.
Poco efficace la successiva “Never enough”, fortemente debitrice dei Muse, soprattutto nel cantato, che mostra sì la versatilità dei Dream, ma mette in luce il loro persistente rifarsi agli schemi musicali delle band che hanno influenzato il loro sound. Un episodio privo di rilievo.

Se finora abbiamo ascoltato un album discreto quanto discontinuo, la chiusura si dimostra senz’altro convincente con i due assi finali: con “Sacrified Sons” la musicalità soffice accennata con le precedenti ballate trova una resa più convincente nella parte centrale del brano, che si riaccosta ai temi classici del gruppo, fatta eccezione per la conclusione, concepita in maniera sbrigativa. “Octavarium”, maestoso brano che dà il titolo al disco, è il pilastro dell’intera opera, una suite di ben venticinque minuti facilmente assimilabile ad un classico quali “Change of seasons”: dopo un incipit accostabile ai Pink Floyd, le note di piano accennate in chiusura a “The root of all evil” esplodono maestose per sfociare in una lunga introduzione acustica di matrice Genesis: la voce accompagna l’intero dipanarsi del brano sino all’esplodere dell’interminabile bridge centrale, che assume toni più aggressivi e ripercorre le strutture care ai Dream, fatte di lunghe escursioni strumentali, facendosi così perdonare dai fan per aver tradito le proprie origini con gli ultimi lavori. Questa monumentale idra strumentale, in bilico tra i Dream Theater più classici e riferimenti progressive anni Settanta, Yes e ELP su tutti, culmina in un’epica conclusione che riporta al motivo iniziale, in maniera prevedibile ma efficace. Date le premesse questo brano potrebbe qualificarsi come capolavoro, anche se sembra affermare la sempre viva predisposizione dei Dream Theater a comporre disinvoltamente opere sulla scia di “Metropolis”, rivelandosi invece meno incisivi al cospetto di brani più scarni, nei quali viene privilegiata la citazione esplicita di band quali Metallica, Muse e i già nominati U2.
Infatti brani riusciti come “These walls” o “Sacrified sons” difficilmente reggerebbero il paragone con altri come “Sorrounded” o “The silent man”, che, nella loro semplicità, si avvalgono di una freschezza compositiva spesso penalizzata negli ultimi lavoro del gruppo.

Se “Train of thought” nel suo azzardo si era dimostrato coerente, quest’ultimo album è invece poco lineare seppur dimostri una pregevole varietà. Può dunque essere considerato un lavoro credibile, con alcune cadute di tono ed altri momenti che spesso si tramutano nella fiera della citazione, ma anche con episodi di grande stile, come la già citata “Octavarium”.

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