Nel febbraio 2002 decido di regalarmi un bel discone per il mio compleanno. La scelta non può che cadere sul nuovo nuovo album dei Dream Theater; questo causa la notevole spesa di L. 49.900, ma considero anche il fatto che sia doppio.

A prima vista "Six Degrees of Inner Turbulence" può sembrare un album alquanto impegnativo da ascoltare. Lo è.
Il lavoro intero ha una durata totale di quasi cento minuti: il primo disco consta di 5 canzoni, che hanno una durata media di dieci minuti; il secondo è occupato addirittura da una sola canzone da quarantadue minuti, divisa effettivamente in sette parti.
Chiunque abbia ascoltato il precedente album "Scenes From a Memory" non può che lasciarsi sfuggire un sorriso accorgendosi che il primo brano, "The Glass Prison", inizia là dove quello, con "Finally Free", si era concluso: un leggero fruscio come d'interferenza. Poi due rintocchi di campana. Al terzo ci siamo, si comincia.

Colpo di chitarra distorta e Portnoy che non vede l'ora di far cantare la doppia cassa: "The Glass Prison" è potente e veloce e avvia l’ascolto alla bella "Blind Faith", che poi lascia spazio alla più calma "Misunderstood". Martellante "The Great Debate" riferita ai fatti dell'11 settembre 2001, infine "Disappear", lenta, affascinante, stupenda.
Il problema è che a mio parere tutto ciò sarebbe stato sufficiente, e invece no, i Dream ci mettono un secondo disco con un brano, delimitato da "Overture" (ci hanno preso gusto) con melodia copiata da Bach (carina, comunque) e "Grand Finale", quindi un'altra specie di testo teatrale messo in musica. Ma non mi esalta.

E allora? Per quanto riguarda i cinque, sono cambiati nelle capigliature, ad eccezione del sempre folto LaBrie, che peraltro decide di riposare le corde vocali mirando a note non più altissime alle quali ci aveva abituato; dal punto di vista musicale si nota l'inserimento di alcuni "scratches" da dj in una occasione. Il resto è sano prog-rock che tanto ci piace.

Dunque: trattasi di disco molto bello e sicuramente degnissimo di acquisto, ma che ha un punto debole insidioso: la quantità. L'album a mio avviso è "troppo", e questa volta la quantità rompe un po' le scatole alla qualità ("The Test that Stumped Them All" non mi piace proprio, ma tutto il Disc2 sembra pervaso da una trascuratezza di fondo).
Inoltre ciò impedisce quasi all'ascoltatore di comprendere appieno il lavoro nella sua totalità. Troppo sfilacciato, eccessivo. Un passo indietro rispetto al 1999.

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