Ok, sarà un'impresa ardua ma ci proverò. E' già stato scritto TANTISSIMO su questo album, da parte di cultori della musica di Fabrizio, amanti e ossessionati per la sua profonda interpretazione della specie umana, dei suoi comportamenti più tristi, della nobile povertà che la caratterizza, soprattutto grazie al sottoproletariato, studiato come un vecchio libro con la copertina ingiallita e consumata da Faber. Appunto per questo proverò a dare una mia interpretazione di questo disco, più letteraria, più concettuale e forse un pò più filosofica (direte: "complimenti, ti metti in difficoltà ancora prima di iniziare a scrivere"). Fabrizio era una persona alla costante ricerca di sè stesso, ogni volta che arrivava era subito insoddisfatto della sua condizione, in quanto cercatore, viaggiatore tra le sue quattro mura, sognatore di realtà, aveva continuamente bisogno di intraprendere un nuovo, arduo lavoro magari molto in salita, per essere cintento, soddisfatto di sè stesso. Beh questa volta si superò eccezionalmente creando grazie alla collaborazione di Mauro Pagani (ex PFM) un'opera totale, completa, radicata nel folklore genovese e al contempo aperta al mondo. Tengo a precisare la mia posizione nell'interpretazione di questo disco: sono un "bastardo" mezzo piemontese e mezzo ligure, intriso della tradizione contadina del mio basso piemonte, fatta di vino, buon cibo e dialetto, e della cultura dell'arido entroterra ligure. Fabrizio scrisse questo disco in genovese, ma non per i genovesi, per un popolo unito da un legame molto più forte. Creuza de ma parla la lingua del mediterraneo, mare dolce agli occhi di chi non ha niente, dei pescatori che si alzano presto al mattino per andare a raccogliere le reti in mare, delle signore che vendono le olive al sole del mercato, mare amaro per chi migra, per chi viaggia, per chi vi cerca un ponte per un futuro presumibilmente migliore, mare africano e spagnolo, greco e italiano, in una parola MEDITERRANEO. Sono le percussioni, unite al suono dei mandolini e dei bouzouki a farci sentire un tutt'uno, un'unica vibrazione con un fratello marocchino, con un mercante turco, a creare la dimensione spaziale di racconto mistico che travalica il tempo e la storia, le passioni e le debolezze dell'uomo, l'obrorio della guerra, con la salsedine sulle labbra. Fabrizio scelse il genovese; come mai? Semplice: non credete che in un mondo reso tutto uguale, conforme a un'identità comune che tende a tranquillizzarci e anestetizzarci nei confronti del mondo per via della maledetta globalizzazione, l'unico modo per essere liberi, autentici e rivoluzionari sia quello di chiuderci nella nostra tradizione millenaria? Scegliere di parlare il dialetto non è una scelta da contadino, ma una necessità, per evitare di cadere nello squallore del qualunquismo che infetta le grandi città del vecchio continente come se fosse un virus, depredandole della cultura originaria, dei canti popolari, dei piatti tipici e dei modi di dire. Fabrizio scegliendo il dialetto invita il genovese a tornare genovese, il napoletano a tornare napoletano e il siciliano a tornare siciliano, a ritrovare noi stessi nell'identità della nostra tradizione. Come Dario Fo con il teatro riprese un dialetto ritenuto ormai grottesco e simbolo di ignoranza da parte delle avanguardie cittadine, Fabrizio intraprese la sua, ennesima rivoluzione grazie alla musica etnica: sarebbe sbagliato parlare di world music, purtroppo, in quanto tutti gli artisti coinvolti nel progetto erano italiani, nostrani, capaci di cogliere tutti i suoni e le vibrazioni di popoli vicini e lontani, i suoni nell'osteria tra l'odore di lasagnette al pesto e coniglio con le olive e i pinoli, piuttosto che quelli della gente di Marrakech riunita per mangiare un cous cous in compagnia. La calda voce baritonale di Faber ha la cadenza del portoghese dei miscugli avvenuti tra i vicoli dietro al porto, e io sogno storie di marinai stranieri, puttane genovesi, antichi mercanti e profumi d'Oriente, ancora una volta sogno, grazie a Fabrizio.

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