Credo sia, a mani basse, l'opera più bella di De Andrè e una delle più alte nel panorama cantautoriale italiano (e mondiale, dato che piacque anche ad un certo David Byrne). Io sono di parte, ho un rapporto viscerale con la Liguria e la considero non solo la regione più bella d'Italia, ma uno dei punti artistici e culturali più importanti dell'intera Europa (e sto schiscio, come si dice qui a Milano). Oltretutto è un album uscito nell'anno in cui sono nato io, e allora vedete come le cose combaciano.

De André, dopo "L'Indiano" scritto insieme a Bubola, secondo capitolo della svolta folk-rock dopo "Rimini" (svolta eccellente, va detto) sente l'esigenza di distaccarsi completamente da quella musica, e ha in mente un'idea folle: un concept in cui raccontare la storia di un marinaio che dopo trent'anni torna finalmente a casa, profondamente cambiato e, in qualche modo scosso, da ciò che aveva visto attraversando il Mediterraneo. Piccolo dettaglio: il lavoro sarebbe dovuto essere scritto, e dunque cantato, in una lingua totalmente inventata, un grammelot degno del miglior Dario Fo, in cui avrebbero dovuto convivere il genovese, lo spagnolo, il portoghese, e tutti i dialetti del Sud Italia, più il greco. Follia, ma fino a un certo punto. Perchè De Andrè, scavando nella tradizione mediterranea, s'imbatte nella storia, davvero esistita, di tale Cicala, un nostromo genovese fatto prigioniero dai turchi ottomani nella seconda metà del XV secolo e che, avendo salvato la vita al Bey, era stato fatto addirittura pascià. L'idea non verrà scartata, e diventerà l'apertura della facciata B dell'album: Sinan Capudàn Pascia.

"Le canzoni dell'album avrebbero dovuto rappresentare il senso del viaggio, del partir per mare e ritornare, così intimo nell'animo marinaresco ed erratico dei genovesi, e trasmettere in senso più ampio lo spirito indomito e avventuroso di tanti viaggiatori e marinai dei vari paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Da qui l'esigenza di sostanziare le canzoni con sonorità che traessero dalla ricca mescolanza di strumenti popolari e suoni tipici dell'area mediterranea le suggestioni etniche necessarie allo scopo [...]" (Fabrizio Pezzoli, 100 Dischi per capire la Nuova Canzone Italiana)

Le idee faticano a mettersi insieme, fino a che al Castello di Carimate, De Andrè, che sta completando l'ultimo opus in combutta con Bubola, incontra Mauro Pagani, ex PFM, che stava lavorando alle musiche di Sogno di una notte d'estate di Salvatores. L'incontro è decisivo.

"[...] Dal punto di vista compositivo, in un paio di mesi ho scritto tutte le musiche, ma la produzione in studio è stata molto più difficile. Abbiamo iniziato ad agosto e consegnato i master a Natale. C’era molto da fare, e lui è stato molto coraggioso perché da cantautore ha deciso di fare un disco che neanche a Genova avrebbero capito completamente, lo ha difeso e lo ha nascosto alla Ricordi fino all’ultimo. Solo che tutto questo ha comportato una marea di dubbi e ripensamenti. Dopo Crêuza de mä ero sfinito, sono stato a letto per tre mesi" (Mauro Pagani, Rolling Stone)

"[...] Lui stesso veniva dall’esperienza in tour con la PFM, che aveva riempito i suoi brani di violini, mandolini, chitarre. E allora anziché ingaggiare diversi strumentisti ha chiamato me che suonavo un po’ tutto… da buon genovese amava risparmiare (ride). All’inizio con lui ero un musicista da palco, ma nel frattempo avevo iniziato a registrare i brani che sarebbero finiti sul disco: durante il tour ero io ad andare a prenderlo in macchina e in viaggio ascoltavamo queste mie cassette… «Bello, bello, facciamolo!», diceva. Per un po’ non l’ho preso sul serio, poi gradualmente è emersa questa idea di fare un disco in grammelot, prima di scegliere come lingua il genovese" (Mauro Pagani, Rolling Stone)

Utilizzando strumenti di ogni tipo fuorchè classici, e dopo un viaggio nel Mediterraneo in cui De André e Pagani cementarono la loro amicizia e la conoscenza della musica popolare di dette zone, il lavoro in studio è, come riportato dallo stesso Pagani, certosino. Nello studio di registrazione di Carimate risuonano le vibrazioni di oud, bouzouki, saz, mandola, mandolino, viola, violino e gaida, a fare da eccezione un sintetizzatore e poche chitarre classiche. Ciò che ne risulta sono 33 minuti da eternare nella storia della musica. Grazie soprattutto alla tigna di De Andrè che scrisse l'intero lavoro in genovese, ma mica moderno, figuriamoci, genovese antico.

"[...] La strettissima collaborazione artistica fra i due diede presto gli esiti auspicati e la trovata di De André di ricorrere al dialetto genovese - in cui già sono contenuti un migliaio di vocaboli di orgine araba - [...] fu il tratto conclusivo decisivo a tre quarti del lavoro" (Pezzoli)

La Ricordi, che produsse e distribuì l'album, storse il naso. Va bene che era De André, ma un disco cantato in genovese (che per giunta pure un genovese avrebbe faticato a comprendere sino in fondo) sembrò l'anticamera del disastro, tanto che alla Ricordi si lasciarono sfuggire l'augurio (non del tutto positivo): "Speriamo di venderne almeno qualche copia a Genova e dintorni". Uscì a inizio marzo del 1984, inizialmente fece fatica a carburare, ma diventò ben presto un classico tanto che, all'epoca, ne seguì una trionfale tournèe teatrale che riportò De Andrè a contatto con il pubblico (e passarono sei anni, un tempo lunghissimo per il cantautore genovese, prima di far uscire il nuovo album, "Le Nuvole", 1990).

L'album, che si apre con il celebre suono della gaida di Theodoros Kekes, è l'arrivo a Genova del marinaio (l'idea del concept non fu mai, del tutto, abbandonata) e il rivedere, finalmente, le cose conosciute, gli odori familiari della Liguria che sanno di casa, di mare, di vita (il bianco di Portofino; il pasticcio in agrodolce) e si va a mangiare dall'Andrea e chissà che gente ci sarà, forse gente poco raccomandabile (facce di Lugano, ovvero gli imbroglioni, così venivano definiti nell'antico genovese quelli che provenivano da posti "non di mare" e che venivano visti con sospetto, tanto che, come dice la canzone, non essendo abituati a mangiare pesce di mare, non afferrano nemmeno la differenza fra pesce e carne, "della spigola preferiscono l'ala"), a cui si amalgamano, senza soluzione di continuità, la rappresentazione della prostituta Jamin-A:

"[...]

«... Jamin-a non è un sogno, ma piuttosto la speranza di una tregua. Una tregua di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio. Voglio dire che Jamin-a è un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio. Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto» (Fabrizio De André)

e la visione di Sidùn, introdotta dalle voci di Sharon e Reagan, che vede nella città di Sidone (Libano) all'epoca martoriata dalla guerra civile, lo strazio di un padre che vede il proprio figlio perire sotto le ruote di un carro armato. Jamin-A, che s'interrompe bruscamente dopo una sequenza (quasi) infinita di suoni di strumenti a plettro che diventano una danza ipnotica sensuale e "violenta", fa appunto da contraltare a Sidùn, in cui un solitario bouzouki e la triste voce di un uomo in un campo di profughi palestinesi riescono a far vibrare ancora, nell'aria, un residuo di umanità.

La facciata B si apre con la vicenda di Cicala. Il ritmo sale, si fa decisamente mediterraneo, e le vicende, incredibili, di questo genovese divenuto un uomo importante in una regione musulmana (lui che è cristiano) scivolano via come il miele, d'altronde il nostro è un bieco opportunista (si veda la metafora del pesce nel ritornello) che non ha molto da cambiare come stile di vita, tranne quello di non bestemmiare più il Signore ma Maometto. E' incredibile come questo brano sia, in fondo, alla base dell'idea del progetto "Creuza de ma": forse è proprio il tema del viaggio, e dell'essere o apparire ciò che si è o non si è, alla base dell'intero album. Come le onde del Mediterraneo che svelano e velano segreti e orizzonti. O come il minuto esattore delle tasse nella delicatissima 'A pittima (si noti che il termine pittima era comune anche in Piemonte e Campania):

"Il personaggio è la risultante di un'emarginazione sociale, almeno come io lo descrivo, dovuta principalmente alle sue carenze fisiche. "Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il vestito dietro ad un filo": questo è il lamento di chi è stato costretto da una natura tutt'altro che benevola a scegliersi, per sopravvivere, un mestiere sicuramente impopolare. [...] Così ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile" (Fabrizio De Andrè)

Ecco, il mio brano preferito. (Lo so è una recensione e dovrei essere imparziale). "A dumenega". Tanti anni fa, inizio Novecento, a Genova le prostitute lavoravano tutto il giorno, e la domenica venivano emandate, per una mattinata, dal dovere e potevano uscire tranquille per strada. Ora, i frequentatori, soprattutto se sposati, facevano finta di non conoscerle. Peggio, le insultavano (qui c'è un aggancio alla Città Vecchia, canzone deandreiana di molti anni prima: "Quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie, quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie") epperò le poverelle portavano soldi nella tasche del Comune finanziando, in buona misura, i lavori del Porto di Genova; il direttore del Porto però, ben conscio del loro ruolo, le insulta lo stesso (per coerenza, dice) ma i bigotti che le prendono a male parole sono tonti, e fra di loro uno fa finta di non vedere che tra le prostitute in libera uscita c'è pure sua moglie. La canzone è una meraviglia, a cui Franco Mussida, e il suo mandolino, conferiscono un peso specifico enorme (il Mussida, sul finale, è colui che suona l'assolo di chitarra andalusa) e il ritornello (il brano ha un ritmo contagioso) in cui si elencano i vari quartieri di Genova e cosa è possibile trovare in ognuno di questi (le donne un po' più mature; le ciuccia cazzi [cito alla lettera]; i trans) è irresistibile. Pagani dichiarò a De Andrè che appena la gente l'avrebbe ascoltato, la reazione sarebbe stata: "Riecco il De André che conoscevamo". In effetti è corrosiva e pungente nel miglior stile dell'autore.

Ognuno di questi brani può essere definito world-music e lo stesso De Andrè, attirato da questo mondo musicale, ne descrive le potenzialità ma capisce che, anche lui, deve immergersi in questo mondo:

"Sono quindici anni che si parla di questa musica mediterranea. Ma dov'è? Vorrei proprio ascoltarla! Così ho deciso di farlo io un disco di musica mediterranea. Ci ho messo cuore e impegno e una buona volta mi sono scrollato di dosso la musica americana".(Fabrizio De André)

Siamo alla fine del viaggio, si torna in mare. "Da me riva" è breve, secca, malinconica quanto basta. Bisogna salutarla Genova, e lo si deve fare con rispetto. Tre minuti che valgono una vita. Il cerchio è chiuso.

Ah, se passate a Genova, andate a Boccadasse (che se non la conoscete è un angolo di Paradiso) c'è un posto dove si mangia bene (specialità pesce, ça va sans dire), si chiama "Creuza de ma". Così, come consiglio finale. Ah no, dimenticavo. Lo conoscete Maurizio Crozza, il comico ligure? Il cognome è Crozza, modifica moderna dell'arcaico Creuza, cioè mulattiera di mare. Ecco, evidentemente il nostro veniva da una famiglia che abitava in una zona di Genova così, e li chiamavano i Creuza. Poi, col tempo, trasformatosi, appunto, in Crozza.

Elenco tracce e samples

01   Creuza De Ma (04:30)

02   Sinan Capudan Pascia (03:30)

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Altre recensioni

Di  the poet

 "Un disco dedicato ai viaggiatori, anima pura e poesia."

 "David Byrne definì questo disco uno dei più importanti degli anni '80."


Di  MississippiFra

 Creuza de ma parla la lingua del mediterraneo, mare dolce agli occhi di chi non ha niente.

 Scegliere di parlare il dialetto non è una scelta da contadino, ma una necessità, per evitare di cadere nello squallore del qualunquismo.


Di  Dislocation

 "Me pa propriu c'u segge questu u mundu sugnou da u De André... nu cumme n'ou fan vedde a-a televixun".

 "E a muntà l'ase u gh'è restou Diu, u diau l'è in çe e u se gh'è faetu u nìu..."


Di  Dislocation

 "Siamo in un posto di parole e di sguardi, di grida e spintoni, siamo nell'ombelico del mondo."

 "Mi sembra proprio che sia questo il mondo sognato da De André, per niente perfetto e anche puzzolente, così diverso dal suo..."