I dolori del giovane Pecknold”

Può un brano riassumere mood e temi di un disco? Stando al secondo capitolo della saga delle volpi di Seattle, sembra proprio di sì. Nella titletrack il leader Robyn Pecknold ben esplicita ansie e paturnie tipiche dei primi vent'anni, stupendosi di non essere “unico fra tanti, ma solo un mero ingranaggio di qualche macchinario “super partes”. Che i riferimenti siano sociali o velatamente religiosi non è dato saperlo, ma il tema della crescita e della disillusione sembra aleggiare su tutto il disco.

Disco che, diciamolo subito, se perde in immediatezza rispetto all'omonimo di 3 anni fa (no nessuna “White Winter Hymnal” questa volta), acquista in profondità. Una profondità, testi a parte, manifesta nella scelta di melodie più stratificate e ragionate, e di soluzioni strumentali variegate, grazie all'ampia dotazione di Moog, violino, Harpsicord, Harmonium e chincagliera post-freak assortita.

Ricercatezza quindi, in luogo di soluzioni più immediate e piacione. Una scelta che, se manca la penna o la testa, rischia di essere un harakiri artistico. Fortuna che le volpi dalla loro hanno (oltre a penna e testa, a mio avviso) un valore aggiunto fondamentale, che gli permette di elevarsi rispetto alla media dei gruppi di ispirazione 60's folk: l'inconfondibile ugola di Pecknold.

Voce che può piacere o non piacere la sua, ma che ha una dote fondamentale: la riconoscibilità. Se l'hai sentita una volta non puoi scambiarla con nessun'altra (beh forse con Jim James dei My Morning Jacket, ma è una mia fissa). E questo è un vantaggio fondamentale in un ambito zeppo di revivalismo un tanto al chilo e di pedissequa reiterazione delle fonti.

Poi se subentra anche l'aspetto emotivo, allora, come il sottoscritto siete fregati. Come la cover art (denominata Mind Map) il disco racchiude sensazioni e umori per lo più ultramondani, come un espansione cosmogonica ma tutta interiore.

Interessante notare come i Fleet Foxes, oltre che affinare una formula folk pregressa, prevalentemente di matrice americana ( sia CSN&Y o il Dylan meno elettrico, i rimandi immediati), aggiungono l'altro lato della luna, ossia il folk albionico fra i '60 e i '70: John Martyn, Fairport Convention, e gruppi più acidi come Incredible String Band, Spirogyra, Forest. Esemplari le due tracce più lunghe e sperimentali del disco: “The Plains/Bitter Dancer”, lento crescendo che sbuca su un campo assolato fra cori estatici e flauti a rimorchio, per poi caracollare giù per il pendio; “The Shrine/An Argument”, arpeggio circolare molto Bert Jansch, vocalizzi fra l'angelico e l'arrabbiato, finale dissonante free jazz. Dall'iniziale e innodica “Montezuma”, passando per le ance di “Bedouin Dress”, il cambio repentino di “Sim Sala Bim”, l'empatia della titletrack, la circolarità gioiosa di “Lorelai”, fino il quasi rock-folk di “Grown Ocean”, la paletta dei colori è completa.

Il quadro sarà forse troppo colorato, addirittura pretenzioso per alcuni, ma se la visione d'insieme sfugge, tuffarsi alla scoperta dei particolari potrebbe rivelare gioie inaspettate.

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