Quattro anni dopo “High as Hope”, che rappresenta il culmine di un progressivo allontanamento dai barocchismi e dal caos controllato del debutto verso suoni più scarni ed essenziali, Florence Welch e la sua fida e sempre affiatata Machine tornano in scena con “Dance Fever”, che dal punto di vista sonoro è quanto di più simile agli esordi la band inglese abbia prodotto da diverso tempo a questa parte. Questa volta però c’è un non trascurabile fattore a fare la differenza: una gran consapevolezza dei propri mezzi portata da una finalmente padroneggiata maturità artistica, che, all’atto pratico, significa che la band è finalmente riuscita a trovare la quadra per affinare quel sound che, già dal debutto, si è imposto non solo come marchio di fabbrica, ma anche come sua croce e delizia.

“Lungs” e, soprattutto, “Ceremonials” avevano infatti il difetto di proporre arrangiamenti pomposi e stratificati che funzionavano alla grande sui singoli pezzi, ma decisamente meno nell’economia di un intero album; si aveva, in poche parole, la sensazione che tutte le carte vincenti che il gruppo aveva a disposizione venissero giocate subito in una manciata di brani iniziali per essere poi riprese in continuazione in tutti gli altri, appesantendo quindi l’ascolto del disco nel suo complesso. In “Dance Fever”, invece, il problema non si presenta, anzi, grazie anche alla produzione curata dall’ormai onnipresente Jack Antonoff, la band sembra aver trovato nuovo smalto: i barocchismi sonori e canori sono tornati, ma sono gestiti molto meglio e vecchie e nuove influenze musicali sono incanalate nell’album in maniera molto più misurata e intelligente che in passato. Ne guadagna sensibilmente la varietà sonora della tracklist: si passa agevolmente dall’elettro-pop di “Free”, uno dei pezzi migliori, alla disco onirica di “My Love”, al blues di “Dream Girl Evil” e al folk di “Choreomania”, senza farsi mancare qualche accenno di country in “Morning Elvis” ed echi di Kate Bush in “Cassandra”. Il tutto, poi, senza che il lavoro svolto da Antonoff risulti in alcun modo ingombrante: la produzione è al servizio della Machine e delle canzoni, non il contrario.

La riuscita del disco non è però solo merito della parte strettamente musicale: due anni di pausa forzata dai tour e dai grandi palchi hanno infatti obbligato Florence Welch, vero cuore pulsante della band, ad affrontare un percorso di autoanalisi che in “Dance Fever” si traduce in testi estremamente personali ed espressivi, in cui l’autrice esterna le sue insicurezze e le sue visioni tra introspezione e mitologia biblica e pagana. Una sferzata d’ispirazione che, unita alla fascinazione di Welch per il fenomeno tardo-medioevale della cosiddetta “piaga della danza” (la choreomania che dà il titolo al pezzo omonimo), contribuisce a plasmare il lavoro più cupo della band, in cui brevi e apparenti parentesi luminose sono annegate in un alone di oscurità (vedi, a tal proposito, il tribalismo sintetico di “Daffodil”, che dopo un inizio angelico si abbandona a un incedere mistico e solenne).

Si ha perciò che fare con il lavoro meno immediato del gruppo, con le canzoni che si dischiudono nella loro potenza ascolto dopo ascolto, ma anche con quello che si contende il titolo di suo miglior disco con “How Big, How Blue, How Beautiful”, di cui per certi versi rappresenta quasi un’antitesi (esplosivo e diretto quest’ultimo, più composto e dimesso, almeno in apparenza, “Dance Fever”).

Grande merito del disco è, infine, quello di porsi come un nuovo punto di partenza per il futuro della band: finora Welch e compagnia sono infatti riusciti a variare di album in album la loro proposta, mantenendola riconoscibile senza essere (quasi) mai ripetitivi e sarà perciò interessante vedere verso quali lidi si spingeranno nella loro evoluzione artistica. Nel frattempo, non rimane che gustarsi questa bella favola gotica, sapientemente narrata da una delle migliori personalità della musica pop dell’ultima decade, nell’attesa che Florence e i suoi musicisti tornino a deliziarci il prima possibile con uno spettacolo dal vivo come solo loro sanno fare.

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