Ho le idee chiare su Franco Battiato. E, come tutte le mie idee in particolare e quelle su Battiato in generale, sono discutibilissime. Come sono in sé discutibili quelle su altri grandissimi come Battisti, Dylan o De André. Sono carriere lunghe, tribolate, con vertici altissimi e opere discutibili. Con fasi blu, fasi solari, fasi apparentemente marchettare ed altre decisamente "not for beginners" (come diceva il titolo di quel disco, bello e simbolico, di Ron Wood).
Franco Battiato ha detto tutto, o tutto sembrerebbe aver già detto. Ha sperimentato come forse nessun altro in Italia, ha conquistato le classifiche con canzoni orecchiabilissime e mai stupide, s'è innamorato, a turno, dell'america, della musica classica, della musica araba, della cultura araba, della parola, della tastiera, della chitarra, della lirica, ecc... L'unico amore mai provato, per sua stessa ammissione, è quello per il jazz, così tanto caro, invece, a Sgalambro, suo alter ego "canzonettaro" dell'ultimo periodo.
Con Mario Sgalambro, discussissimo e forse discutuibilissimo paroliere del periodo post "Café de la paix", ha confezionato dischi altissimi ("L'Imboscata"), altri decisamente belli ("Ferrobattuto") ed altri più modesti ("Dieci Stratagemmi"), sempre intendendo la modestia non secondo canoni assoluti, ma decisamente relativi all'altezza -altissima- di Battiato. Ultimamente i due scrivono assieme i testi, e questo è, in sé, un bene.
Oggi ci spiazza ancora. E solo per questo, probabilmente, merita una lode.
Già appena visto nella piccola vetrina del negozietto di dischi, l'unico, della mia piccola città, faceva una bell'impressione. Quella grafica scarna, austera, quasi battistiana e sicuramente tristissima: facciate di case da cinecittà, facciate senza casa, facciate che danno, appunto, sul vuoto.
Non c'era dubbio alcuno sull'acquisto: Battiato si compra, in originale, da sempre. Da quel lontanissimo 1981 quando comprai la prima sua musicassetta.
Secondo dato che si nota con curiosità (dopo la gelida e bellissima copertina) è la durata del disco: 33:33, per 9 brani. Qualcosa vuol dire di sicuro, visto che stiamo parlando di Franco Battiato, ma neanch'io, a dire il vero, saprei azzardare ipotesi certe. Sicuramente il numero 3 nelle tradizioni religiose ha moltissimi significati. Sarebbe bello chiederglielo... ed essere sicuri della risposta.
Le canzoni poi volano via, al primo ascolto apparentemente ostiche, difficilissime, alcune quasi indigeribili. Difficile poter dire a cuor leggero che si tratta di un'opera che colpisce da subito. Ma, incredibilmente, neppure è un opera che si "mette là", sullo scaffale, a riposare inutilmente insieme ad altri errori d'acquisto passati.
Anzi: cresce dentro la voglia di riascoltarla, come succedeva una volta, e come non succedeva da un bel po'.
E, riascoltandola, ci si trovano cose molto interessanti. Sempre crescenti e sempre più spiazzanti, fino a farne, per farla breve, un disco grandissimo. Eccezionale. Un capolavoro di genere paragonabile, a mio avviso, all'epopea dei "bianconi" pannellianbattistiani.
Mi spiego: il capolavoro di questo disco sta nel "non essere", la bellezza delle sue canzoni sta nell'essere delle "non canzoni". Battiato qui fa splendidamente il verso a se stesso, riscrive canzoni già scritte, torna su temi già affrontati mille volte... insomma... fa Battiato. Ma lo fa né in maniera (auto)trash, né kemp. Fa semplicemente la versione austerissima, malinconicissima e, in una parola, tristissima di quel che ha già fatto. Questo disco è gelido disincanto. Perfetta e pura solitudine.
Inutile (d'altra parte non lo faccio mai...) lanciarsi nella disamina dei singoli brani. Perché nulla c'è da spiegare. C'è, come diceva il miglior Dalla, da "sedersi ed ascoltare". Ascoltare questo gruppo acido e freddissimo che suona insieme a lui (ogni volta che Battiato si rimette alle chitarre ne escono dischi bellissimi, secondo me), ascoltare questa voce che pare venga da una lontanissima, e freddissima, cripta.
Ascoltare quest'opera che chiude il terzo (per altri quarto) periodo della carriera di Franco Battiato, e pare chiuderla definitivamente. Pare difficilissimo, davvero, pensare a quel che potrebbe fare dopo. Ideale sarebbe (non volendo "strinare" nessuno, per carità...) un sano ritiro.
Nella canzonetta colta ha detto moltissimo, nella canzone d'autore pura ha detto non solo molto, ma in maniera assolutamente unica ed inedita. Ora siamo all'autocelebrazione disincantata, all'autoesaltazione mesta. Alla definitiva costruzione e decostruzione della propria leggenda.
Questo disco è un capolavoro. Non il canto del cigno della canzone d'autore italiana (per me "Don Giovanni" di Battisti/Panella del 1986) né il colpo di coda definitivo (sempre per me "Anime Salve" di De André, 1996), bensì lo zombie geniale che esce dalla fossa, d'improvviso, ti terrorizza e spiazza, e poi subito sparisce.
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