Iniziamo col dire che l'idolatria è tra i peggiori mali dell'uomo e che i "fan" sono feccia (scherzo dai..). Detto ciò ci sono due persone per le quali non posso evitare di cadere in un moderato fanatismo: l'una è Dylan, l'altra è Glenn Branca. Quest’ultimo mi piace così tanto che ogni volta che voglio ascoltarlo ho quasi delle remore, la sensazione, come se ogni ascolto equivalesse a rischiare di sprecare qualcosa di prezioso da cui dover attingere solo nel momento più perfetto, o come consumare, a ogni boccata, un po' di ossigeno dalla tuta spaziale quando sei nel vuoto interstellare... eppure hai bisogno di respirare. Paranoie strane vabbè…
Ma tutto ciò non senza ragione.

Branca è un genio, la sua opera è probabilmente il primo esempio che mi verrebbe in mente di fare se dovessi descrivere l'arte, perché è così unica, così innovativa, così folgorante, così violenta e pacifica, così viscerale e nello stesso tempo programmatica, così dissonante eppure così armonica, così equilibrata eppure così radicale, così disumana, e in fondo così umana.

Branca è un sommo maestro della nevrosi e dell’angoscia esistenziale, uno dei massimi esponenti del noise e tra i "fondatori" della no-wave (movimento culturale nato a NY alla fine dei ’70, che nella musica si traduce nell’esaltazione dell’atonalità, e, in un certo senso, della percussività; ma, a parte un certo tipo di approccio, lo definirei un non-genere) insieme ad altri gruppi come Teenage Jesus and Jerks, DNA, Contortions. Lui però si discosta molto dagli altri, la sua musica è sì dissonante, tuttavia raramente mi è capitato di ascoltare qualcosa di così armonioso: le sue piece sono noise-rock, eppure appaiono “inspiegabilmente” ordinate, cristalline, dal sound “sinfonico”. Questo perché, pur essendo lui un punk schizzato, mantiene sempre un grande ordine sia metrico che armonico oltre a basarsi su una sezione ritmica che fa da padrona, e non di meno, utilizza una (mai vista) vera e propria orchestra di chitarre elettriche.

Branca ha elevato il noise-rock a genere colto, classico, e ha razionalizzato la nevrosi rappresentandola come emozione perfettamente ordinata, rendendola così forse ancora più terribile e inquietante.

Lesson No. 1 (1980) è il suo primo album (EP) (a cui fa seguito il suo capolavoro, all'unanimità, "The Ascension"). Ci tengo particolarmente a parlarne anche perché, nonostante non sia un capo, contiene uno dei più spettacolari brani della musica rock nonché uno dei miei preferiti in assoluto, per originalità e per pathos, “Dissonance”.
Lo stile e il sound, ancora non maturi, personali e ispirati come in Ascension (poco ci manca), sono qui già ben delineati.
Sostanzialmente, stiamo parlando di noise-rock, industrial, ambient mischiati a un modo di fare musica che è vicino alla classica (e già questo fa capire che ci troviamo di fronte a un pazzo), anche se mi sembra riduttivo e volgare parlare di generi per questo tizio anarchico (musicalmente e non). Se mi limitassi a parlare di generi la musica che vi ritrovereste davanti sarebbe comunque completamente inaspettata, perché appunto, dei generi se ne sbatte.

Il primo lato è "Lesson No. 1 for Electric Guitar" (8') con subito in nuce, forse con un po' di incertezza, tutto il suo personalissimo stile. La traccia è una suspense perpetua fatta di chitarre dal sound cristallino, metallico e un po’ stridente - come un fantasma di elettricità che ulula tra le ossa della faccia (prendo gentilmente in prestito) - però rilassato e “aperto”, che si rincorrono circolarmente tendendo a formare un muro di suono.

Il secondo lato è la pirotecnica "Dissonance" (11'), una piece praticamente orchestrale che non posso fare a meno di srotolarvi (spoilers):
...plettrata violenta; soffi di depressurizzazione; fade-in di un basso dal pulsare cardiaco che dà il ritmo (sostenuto); ancora plettrate violente e rumori meccanici che iniziano a organizzarsi, ma non fanno in tempo, perché tutto si blocca. Parte di botto, paurosamente frenetico, un 6/4 di crome con la cassa che dà il ritmo, e le chitarre che danno la... il ritmo pure perché accordi non ce ne sono o sono brutalmente violentati. A parte scherzi, le sequenze "armoniche" ci sono, ma sono composte da "accordi" dissonanti appositamente eseguiti per restituire solo angoscia. Dopo un climax che raggiunge grandi vette emotive la batteria si stoppa bruscamente e ci ritroviamo di fronte l'andirivieni spaventoso di pistoni di macchine industriali che girano a vuoto. Pian piano iniziano di nuovo a lavorare fino a pieno regime con l'aumentare della velocità e dell'intensità (torna a pulsare veloce la cassa), il crescendo è al cardiopalma, l'euforia malata è grande e inarrestabile, è come se fossimo un tutt'uno con la macchina viva. A un tratto le chitarre impazzite insieme alla cassa, come se qualcosa si fosse inceppato tra gli ingranaggi, urlano furiosamente scandendo ogni quarto, sempre in questa follia che continua. Gradualmente sembra si debba delineare uno scenario più "aperto" e quieto, ma subito si ricade nella disperata ossessione ancora più malata e furiosa di prima, con la cassa che sembra in tachicardia.
La velocità del "battito cardiaco" inizia ora a diminuire, diminuisce sempre di più toccando il punto dopo il quale, gradualmente, aumenta, fino a che non si stabilizza e, questa volta, si ferma, lasciando andare avanti in uno spazio sterminato solo delle chitarre che suonano come violini. La sensazione qui è di liberazione totale, come prendere una boccata d'aria fresca dopo essere stati tra i fumi tossici e il calore di una miniera. Inizia l'epilogo con queste chitarre "scampanellanti" alle quali si unisce dopo un po' la sezione ritmica vera e propria, "fuochi d'artificio" di prassi, fine. Il brano racchiude molti degli elementi industrial venuti fuori in quegli anni e riprende un certo tipo di minimalismo (La Monte Young, Terry Riley) ma fa comunque storia a sé.

L'opera di Branca si posiziona al bordo sostanzialmente di due macrogeneri: il rock e la classica (al di là delle velleità chiaramente industrial degli inizi e più ambient e new-age dalla serie "Symphony") ma, appunto, è di importanza chiave il sostantivo "bordo" per capire la sua geniale operazione, perché non ci entra mai veramente dentro, non si è banalmente tuffato nei generi prendendo gli ovvi stereotipi armonici e strumentali dell'uno e dell'altro, ma ha preso, usandoli semplicemente come "strumenti", pochi, essenziali elementi distintivi di questi due (perlopiù strutturali: dinamiche e approccio) per poi ricreare tutta la "ciccia" da sé, in modo incredibilmente personale.

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