Il ritorno dei Godflesh dopo tredici anni di forzata assenza.

Devo tornare al 2001 ed al tour promozionale, in procinto di partire, dell'album Hymns da poche settimane pubblicato.Il bassista GC Green comunica al collega Justin Broadrick l'intenzione di uscire dalla band, di mollare tutto, di non andare in tour. Per Justin è una notizia tanto dura quanto inaspettata; una mazzata colossale che mina il suo equilibrio mentale. Cade in forte depressione e nei primi mesi del 2002 mette la parole fine alla band. Si concentra fino al 2010 su altri numerosi progetti musicali, in primis i Jesu.

Justin e GC tornano a frequentarsi, a sentirsi dopo anni di buio totale. In modo del tutto inaspettato i Godflesh vengono rimessi in piedi, si riformano con la medesima storica formazione.

Entrano nello studio di proprietà del leader e fondatore e registrano una quantità enorme di brani; molti finiranno nell'album A World Lit Only By Fire che vedrà oscura luce nell'Ottobre del 2014 (avrò tempo e modo di parlare anche di questo colosso Metal-Industrial).

Si decide di mettere in commercio un (dis)gustoso antipasto sonoro nel Giugno dello stesso anno; un breve EP di soli quattro brani.

Questa è la genesi di Decline & Fall.

Non chiedono aiuto a nessuno; fanno tutto da loro. Produzione, etichetta, registrazioni.

E ciò che viene fuori è il solito intransigente, spropositato, mastodontico muro sonoro.

Justin usa una chitarra ad otto corde per accrescere a dismisura il danno uditivo.

Il basso megalomane, onnipresente di GC concede il suo mostruoso contributo.

Una Drum Machine asettica, congestionante rende ancor più claustrofobico lo scorrere impietoso dei singoli raggelanti minuti.

E' un EP che guarda indietro nel tempo; che si vuole rifare alle prime uscite dei Godflesh.

Dimentichiamoci la svolta Dub ed elettronica dei dischi della seconda parte degli anni novanta.

Decline & Fall è legittimo erede delle frastornanti colate di metallo incandescente che rimandano ai capolavori Industriali di Streetcleaner e soprattutto Pure.

Non si respira, non esiste nessun tipo tregua; non concedono pause i Godflesh. Concentrati nel riprendersi lo scettro di padroni di un genere musicale che hanno contribuito a creare e diffondere nella prima parte di carriera.

Ossessive ed ossessionanti note nerissime come l'oscuro fondo di un abisso oceanico.

Glaciali, ripetitivi, densi, profondi, sconvolgenti come avviene nell'iniziale "Ringer". Sei minuti da vero e proprio incubo anche per uno come me abituato a certe scudisciate.

La breve "Dogbite" è l'episodio meglio riuscito del lavoro. E' il basso di GC che si eleva protagonista; Justin lo accompagna con il suo cantato secco, stridente, primitivo. Mentre la sua chitarra disegna note circolari, ribassate, ripetute fino al termine.

Si cede il passo alla scioccante "Playing With Fire": ancora una volta siamo dalle parti dei sei minuti come durata complessiva. Minuti di totale disturbo mentale...ma potrebbero anche protrarsi per un'ora...nulla cambierebbe. Ne vieni fuori a pezzi, collassato, esangue...e manca la morbosa title track.

Ad Maiora.

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