Questa volta partire dalla copertina non è d’obbligo. Già, perché il disco è citato sempre e solamente per la sua terribile cover, decisamente inguardabile, ma mai nessuno che parli dei contenuti musicali.

Presumo sia inutile narrare tutte le vicende che hanno riguardato gli oltre quattro decenni di vita di questa band, tra continui cambi di formazione, di capitano e di indirizzi musicali, per reinventare, ogni volta, una nuova band, un nuovo schema, un’idea novella in grado di tenere ben visibile quel filo rosso di collegamento tra l’intuizione iniziale e il tracciato nella sua globalità. In fondo la creatura Gong, nonostante tutte le sue diramazioni, rappresenta una delle entità musicali più originali e facilmente riconoscibili tra il marasma acustico esploso dal rock and roll ad oggi. Questa riconoscibilità la si deve essenzialmente a Daevid Allen che, nonostante lo stop forzato dal 1975 al 1989, ha inventato e siglato il particolare sound che contraddistingue il combo multinazionale, miscelando sapientemente psichedelia, jazz canterburiano, blues, funky e follia sperimentale.

Dal suo rientro nella band, spodestando – seppur parzialmente – la formazione capitanata da Pierre Moerlen, Allen riprende i temi a lui cari e dopo una serie di dischi forse non troppo centrati e di quasi totale insuccesso commerciale, sull’onda di un rinnovato interesse generale e mondiale per la psichedelia (intesa come compendio di suoni) approda a questo lavoro che, già dal titolo, fa capirne le intenzioni. Altro indizio fondamentale è la formazione che vede, della vecchia guardia, solo lo stesso Allen e Gilli Smith poi il fenomenale chitarrista Josh Pollock proveniente dagli University of Error, ancora il chitarrista e il tastierista degli Acid Mother Temple, i giapponesi Makoto Kawabata and Cotton Casino e i due batteristi Orlando Allen (il figlio) e Dharmawan Bradbridge. Tutti a seguire il delirio industriale estemporaneo del leader, tra improvvisazioni furibonde e parti più meditative, che pescano anche dalla tradizione del sol levante. In questo è fondamentale l’apporto di Makoto e del suo bazouki, che riesce a cesellare brevi anse di tranquillità nel fiume acido e travolgente generato dalle chitarre distorte e maligne, spesso tappeto delle declamazioni fantasiose di Allen.

Esemplare, in questo senso, è la notevole “Bazuki Logix”, sognante paesaggio che sembra provenire da un’altra dimensione o nella super space psichedelica “Waving”, cullante ed estraniante ninnananna. Ma, in effetti, sono proprio i riff cattivi e graffianti delle chitarre a imperversare in maniera larga e diffusa, come nei vorticosi meandri di “Supercotton” o nell’iper metallica “Zeroina”. Brano topico è “Makototen”, lungo, contorto, space, acido e aggressivo, costruito su un riff ipnotico in 5/4, che fa base all'evoluzione armonica del brano. Mancano ancora da citare alcuni passi di declamazione quasi rap, con quello stile tipico di Allen già sperimentato con i New York Gong nel 1980.

Complessivamente abbiamo nel lettore un disco che è l’apoteosi dell’anticommerciale, che dimostra una coerenza persino dannosa e masochista. Cioè il disco è interessante, ma Allen, chi cacchio te lo compra? 

E ora parliamo pure della copertina, chiaramente di rara bruttezza e cattivo gusto. Osservandola brevemente e nel suo orrido insieme, pochi, certamente, avranno fatto caso alla particolarità delle lettere “G”, iniziale e finale della parola Gong, posizionate proprio sul cosiddetto “Punto G” del pube femminile e inoltre che l’immagine non è speculare, ma le mani delle “ragazze” si incrociano per finire sul sedere dell’altra. Stupidaggini artistiche a parte, ascoltatevelo perché merita.

p.a.p.

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