Quando a mio padre (mai dimenticato primo mentore musicale) parlo di “gruppi” o “band” lui storce il naso.

- “Un complesso, intendi?”

- “Chiamalo come ti pare.”

Oggi, però, concordo con lui: i Gov’t Mule non sono un gruppo, sono un complesso; sono densi, potenti, variegati.

È un peccato che poche persone, qui in Europa li conoscano. Meriterebbero certamente più fama. Certo, si perderebbe quel gusto un po’ pretenzioso di essere tra i pochi cultori, ma sono ben altri i musicisti che si accoccolano nella loro nicchia. Nati come progetto parallelo alla Allman Brothers Band, per iniziativa di Warren Haynes e Allen Woody, rispettivamente chitarrista e bassista, hanno oramai molti (25) anni di carriera, e pochi colpi sparati a vuoto.

In un triste giorno del 2000, Woody muore, si dice di overdose, ed in suo onore i rimanenti componenti del complesso decidono di registrare un album con i bassisti per i quali Allen aveva espresso apprezzamento. Nasce così The Deep End, Volume 1.

L’album si apre sul riff di “Fool’s Moon”. Quello che subito colpisce è però la voce di Haynes, calda, vibrata, e grassa abbastanza da cantare blues, ma non troppo per cantare rock. Il tono generale è lento, ma non compassato; gran parte delle canzoni avvolgono e crescono col passare dei minuti. I riff sono caldi, pastosi; al contrario, gli assoli spiccano nitidi nell’intreccio di organi e chitarre.

L’intero disco suona un’America profonda, barbe lunghe e tracotanti panze da truck driver con un solo braccio abbronzato. Non manca mai un leggero senso di smarrimento, soprattutto nei testi. Probabilmente, se Non è un Paese per Vecchi avesse una colonna sonora (non sarebbe il film che è, direte voi), sarebbe proprio questa.

Non mancano momenti di profonda lirica; ad esempio “Banks of the Deep End”: una ballata di un uomo turbato, che nonostante la perdita della certezza, del proprio migliore amico, mantiene la speranza aggrappandosi alla solitudine della propria anima. Poco dopo, un’intro di organo, si staglia indelebile, ed apre per un’altra ballata, questa volta sognante e paterna. Impreziosita dalla voce nera di Little Milton, “Soulshine” richiama il Delta Blues più calmo e fumoso.

Con “Effigy”, i Mule come di consuetudine, si prodigano in una cover: il risultato è magistrale, il testo essenziale e ciclico, lascia che gli strumenti siano protagonisti. Il profondo basso di Mike Watt prende corpo, ed incalza man mano la canzone, che per sette minuti gioca sempre sullo stesso ritmo, prima di assopirsi, esplodere, e sciogliersi in una jam poderosa negli ultimi 130 secondi.

Nell'eclettismo del disco non mancano momenti funk, come “Down and Out in New York City”, “Sco-Mule” o “Tear Me Down”. In generale i Mule si sono sempre dilettati ad influenzare il Southern Rock, sporcarlo ed impreziosirlo con stili, suoni e musicisti altri da loro.

L’album dopo la briosa - a dispetto del titolo - Tear Me Down, chiude con tutta la forza che può. Il riff è pesante, e rincara la carica emotiva. L’unica traccia incisa anche da Woody viene posta a chiosa di un disco ricordo carico di sentimento e strutto dalla perdita, ma non perciò di commiserazione. “Sin’s a Good Man’s Brother”: i Mule lo sanno e non si perdono in pianti, si accomiatano con onore e con un disco grandioso.

Carico i commenti... con calma