Maledetto underground!

No, calma, non gli sto augurando nessuna maledizione. Io intendevo solo che l’underground è maledetto dal destino. Sì, perché a volte i dischi che lo rappresentano valgono molto più di esso stesso. Malgrado ciò, le persone continuano ad ignorare le sue proposte, che sono gettate negl’abissi della memoria, rendendo l’underground un ampolloso e perpetuo corso d’acqua colmo di proposte molto diverse fra loro – dalle opere valide a quelle obiettivamente brutte – destinate però a transitare lungo lo stesso fiume in piena che corre veloce verso la foce dell’oblio. Talvolta però, in questo funesto clima di disfatta, entrano in gioco i cultori della musica, quelli convinti che dentro quel fiume non ci sia solo spazzatura. Allora l’esploratore di turno, si denuda, si getta nel fiume e, una volta in apnea, inizia ad agitare le mani, sperando di riemergere in superficie impugnando un piccolo tesoro gettato nel dimenticatoio.

Io ci torno spesso in quelle acque, e talvolta capita anche a me di trovare uno smilzo ma prezioso gruzzolo da portare a casa. Il racconto di questo LP, inizia proprio da quella volta in cui potei chiudere le dita su di esso. Si trattava di una ristampa limitata del 1987, distribuita in Europa dalla Timeless, una label che aveva già ristampato nomi importanti come Gentle Giant o Fleetwood Mac, ma che aveva avuto il coraggio di riproporre questo Grail, distribuito per la prima volta dalla Barclay, nel lontano 1970. Inutile dire che il disco passò inosservato – come anche le sue future ristampe – e non fu utile nemmeno quel Produced by Rod Stewart (esatto, proprio quel Rob Stewart!) a fargli guadagnare un minimo di popolarità. Ma che cos’è che non funzionò?

Di per sé, il disco è egregio, e prodotto in modo “grezzamente” sublime; ma si tratta di un pensiero che potrebbe esternare solo un ascoltatore che ha già assimilato buona parte dei capolavori del passato e si trova a cercare e rivalutare tutti gli “anelli mancanti” che all’epoca furono gettati in un angolo. A quei tempi, lo psych/prog era uno stile strutturalmente complesso, raffinato, distante anni luce dalle composizioni sporche e dirette di questo lavoro; era inoltre un genere che cercava un’omogeneità sonora, al contrario della tracklist del prodotto in esame, che gioca su uno stile vario ed irregolare, al punto da farlo sembrare una compilation, piuttosto che un album d’inediti. In realtà, Grail gode di una certa uniformità concettuale, che però non arriva ai primi ascolti, tanto da farlo sembrare un lavoro contaminato da una ferma superficialità compositiva, destinata però ad essere sostituita – ascolto dopo ascolto – da una tenebrosa ed accurata profondità, atta ad emozionare quasi come i grandi dischi del periodo “settantiano”.

Anzitutto, l’artwork è una minacciosa festa per gl’occhi: un imponente vascello dall’aspetto spettrale che fende il dorso di un’acqua corvina, simile al petrolio, in fianco alla quale – accucciato dietro uno scoglio – fa capolino un mostro rimembrante alla celebre iconografia dell’anfibio “Lovecraftiano”, intento a scrutare con curiosità la nave in transito. Normale che una simile illustrazione possa turbare più di un ascoltatore – qualora si apprestasse ad ascoltare l’album per la prima volta. La puntina del giradischi comincia a fregare la superficie del disco quando, dal formicolio emanato dalle casse, inizia a crescere il suono di un violoncello solitario che intona un funesto “adagio”– ovvero il preambolo di questo straordinario capolavoro. È l’inizio del delirio: l’opener Power è quanto di più sconvolgente e perfido si potesse sentire all’epoca. Il pezzo è di chiara scuola “Sabbathiana” ma si concede straordinariamente il lusso di preferire una virata ancor più cruenta ed ossessiva, con un drumming martellante, chitarre acidissime e il basso ingabbiato in grevi sfumature “doomy”. Chris Williams sembra cantare con la voce del demonio lanciando perfidi e rochi scream che mettono a dura prova le sue corde vocali, intonando un pezzo di potentissimo hard rock che in soli sette minuti riesce ad infilare venature primigenie di l’heavy, thrash e (addirittura) black metal: una partenza talmente insolita che meritava d’essere “spoilerata” a dovere.

Grail però, non è solo veemenza: le idee sono tante, e devono essere incastrate in quaranta minuti scarsi di musica. Ecco allora giungere un po’ di quiete con Bleek Wind High –spaventosa traversata dell’Acheronte – una ballad decadente e sulfurea, che traghetta l’ascoltatore verso la sponda più melodica e solare del disco. Day after Day, infatti, strizza l’occhio ai Pink Floyd di “Barrettiana” memoria, mentre l’arcano misticismo della title-track è di chiara scuola Amon Duul II, con un sapiente uso del sitar da parte di Dave Black. Il side B si apre con le note spossate di Camel Dung, grazie ad un magistrale lavoro di flauto e percussioni, imbastenti un assolato scenario desertico che vi farà sbarrare gl’occhi. Questa gradevole monotonia sarà poi interrotta da certi, inattesi stacchi eroici ed avventurosi che vanno a plasmare la canzone più prog-oriented dell’intero LP. Segue il folclore corvino di Sunday Morning rilassato pretesto che ha il compito di traghettarci indietro, verso il lato più muscolare di questa band, grazie agl’undici minuti finali – acidi, incalzanti, elettrici e feroci – con l’invernale e malsana Czechers e con la greve The Square (la più doom-oriented di questo lavoro). Il viaggio termina infine con la proba rullata finale di Chris Perry.

Un disco avvinghiato ad una dimensione alternativa, onirica, demoniaca e tenebrosa; capace di riassumere in modo più magro e grezzo – seppur degno di nota – quanto di buono aveva partorito la psichedelia mondiale nel periodo tardo “sessantiano” ma che al contempo si prepara all’avvento della musica pesante, con una serie di brani davvero energici ed ispirati. Molto intelligente il lavoro di mastering che permette all’ascoltatore di non subire troppo lo sbalzo sonoro dei molteplici stili che ornano il disco – in realtà lo si avverte solo tra la seconda e la terza traccia, ma per il resto, tutto molto bello: parte violento, a metà si calma e alla fine torna elettrico! Una serie di brani dunque disorganici allo stato brado, ma qui ordinati rispettando una cronologia sonora che li fa sembrare un concept diviso in più parti.

Un disco eccezionale e irrinunciabile, forse non compreso all’epoca, ma che potrebbe essere rivalutato oggi stesso. Peccato solo per la scarsa reperibilità in rete, sia per quanto riguarda i siti di ascolto musicale, sia per la disponibilità nei negozi on-line. Il consiglio è di puntare lo stesso sul mercato d’importazione, sperando che riusciate a compiere il miracolo. Ne vale abbondantemente la pena.

Federico “Dragonstar” Passarella.

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