Non si finisce mai di scoprire nuove band a cui appassionarsi. Pur avvicinandomi alla temutissima terza età dell'ascolto* , ultimamente riesco a trovare sempre più spesso gruppi interessanti e che, per un motivo o per l'altro, non sono mai passati sotto il mio radar auditivo.
E' il caso degli albionici Grey Hairs, il cui disco “Health & Sociale Care” esce per la piccola Gringo Records di Nottingham, ma già attivi dal 2011. Tre ragazzi più una gentil signora cresciuti a pinte al pub, assegni di sussidio di disoccupazione e ascolti ripetuti del miglior noise rock anni '90. Ci si aspetterebbe un disco che va dritto al punto, senza arzigogoli di sorta, e ad un primo impatto può sembrare così. Ma col passare degli ascolti rivela una ottima varietà, e soluzioni meno scontate di quello che ci si aspetterebbe da una band con un suono così facilmente incasellabile e riconoscibile.
Le coordinate generali sono quelle dei riff dolorosi dei migliori Jesus Lizard, ibridati con i primi Nirvana (emblematica l'iniziale e urlata “Hydropona”), o anche il suono punk americano che ha su scritto Fugazi a lettere cubitali (“Piss Trangressor”). Ma sono gli espisodi meno bombastici I migliori: l'andamento inquieto e quasi horror di “Tory Nurse”, il falsetto stile At The Drive In di “Breathing In Breathing Out”, il garage punk scandinavo dei '90 di “Kernels Of Eyes”, e i mai troppo poco lodati inglesi Mc Lusky in “Ghost In Your Own Life”.
Non una nota fuori posto nei 38 minuti del disco. Concisi, diretti e disincantati. Come dovrebbero essere tutti in questo merdoso 2019.
*indicativamente dopo i 25 anni di ascolti ragionati, ossia dettati non dalla radio ma dal proprio gusto personale, si è al limite delle potenzialità di ascolto con orecchio aperto; in seguito si diventa ascoltatori “vecchi” e si lascia sempre più malvolentieri la proprio comfort zone acustica.
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