Fortunamente c'è in giro ancora chi riesce a scrivere della buona musica pop senza nessun bisogno di essere in qualche maniera 'mainstream' e ricercare il consenso a tutti i costi e conseguentemente senza scadere in quelli che sono i soliti cliché della musica 'indie' che affermatasi secondo dei principi e dei canoni (anche etici oltre che musicali) negli anni ottanta-novanta, è oggi diventata per lo più una questione di estetica e che ricalca in tutto e per tutto degli schemi tipici della musica delle grandi produzioni discografiche fino a quella che diventa una vera e propria coincidenza tra le due cose.

In questo senso, un disco come questo è qualche cosa che accolgo sempre con particolare piacere e una vera e propria gioia nell'animo, perché pure non trattandosi di quelle che si potrebbero considerare le mie sonorità ideali di riferimento (oddio, non sono certo insensibile a quello che come vedremo è un certo fascino per la psichedelia degli anni sessanta e persino quelli che sono dei richiami alla soul music) sono altresì convinto che siano proprio dischi di questa 'semplicità' a significare una certa vitalità nel mondo musicale contemporaneo e in particolare per quello che riguarda le nuove generazioni.

Lo dico anche perché ho appena finito di leggere un articolo sulla musica degli anni '90 e in cui quel particolare decennio veniva definito come un decennio di ferro per la musica e un bacino incredibile cui attingere ancora oggi e in particolare con riferimento alle nuove generazioni e i più giovani. Cui voglio dire chiaramente di non prestare ascolto a queste puttanate.

Dieci-quindici anni fa ci dicevano la stessa cosa della musica della fine degli anni settanta e inizio anni ottanta. La new-wave era il principale bacino di riferimento cui tutte le band sulla cresta dell'onda dichiaravano di ispirarsi. E lo facevano veramente e se vogliamo lo facevano pure bene. Ma che senso aveva tutto questo? Voglio dire. In questo caso non parliamo di un revival e neppure di una riscoperta. Semplicemente chi muoveva i fili dall'alto, aveva deciso nel suo immobilismo ideologico e culturale che quella che era stata la musica della sua generazione fosse quella migliore. Così succede oggi con la musica degli anni novanta e sarà sempre lo stesso tutte le volte che ci sarà un salto generazione, che però non riguarderà mai voi, ma sempre quelli più vecchi di voi e che pretenderanno tutte le volte di insegnarvi quello che è giusto e quello che è sbagliato. E voi tutte le volte farete bene a fregarvene anche perché, detto per inciso, non avete niente da invidiare nei confronti di nessuno.

Gli Halasan Bazar sono il progetto musicale del norvegese Frederick Rollum Echo, ma la storia di questo gruppo comincia invece a Copenaghen in Danimarca e si sviluppa poi in particolare in Francia a partire dal 2014, dove la band ottiene il principale successo e importanti riscontri e lo stesso Frederick in prima persona comincia a collaborare attivamente con i Tara King Th, band francese proveniente dalla regione del Rodano e capitanata da Ray Borneo e che condivide la stessa sensibilità artistica del gruppo di Copenaghen.

Nessuna sorpresa quindi se anche questo disco, il terzo della band e intitolato 'Burns', sia stato registrato proprio in territorio francese a La Gargouille in Chambon-sur-Lignon in Alta Lorena, uno dei posti simbolo della resistenza francese, e con la supervisione e la collaborazione di Arnaud Boyer (membro attivo proprio dei Tara King Th).

Uscito via Requiem For A Twister lo scorso mese (il 26 maggio) il disco costituisce al momento forse il momento più alto del quartetto capitanato da Frederick Rollum Echo e quello in cui la band perfettamente compie il proprio lavoro di rivisitazione e reinterpretrazione e attualizzazione di sonorità folk-pop psichedeliche degli anni sessanta, attingendo a un patrimonio vasto che va dai Kinks e i Monkees ai Beach Boys e al sound della West Coast californiana ('Fools', 'Freak') fino alla tradizione americana di Buffalo Springfield e Byrds ('Honest People', 'Get Sick And Die'), distinguendosi al tempo stesso per brillantezza e per sensibile intelligenza nelle composizioni e gli arrangiamenti.

Alcuni canzoni sembrerebbero invece fare il verso a un genere tipicamente francese come lo yè-yè. Penso ad esempio alla ballata pop-rock 'Burns My Mind' o alla stessa 'Get Sick And Die' e la soul-oriented 'Under The Water', la gregroriana 'Coming Down'; 'Stretching Out' è un compromesso tra quella che può essere una visione del romanticismo secondo i Kinks e le visioni californiane dei Beach Boys; un certo stile che ritroviamo nella ballata tipicamente british 'Junky', 'The Comedown' e la beatlesiana 'Lucky You' con tanto di arrangiamento d'archi decisamente vintage ma allo stesso tempo perfettamente riuscito e convincente.

Che dire. La sensazione, alla fine dell'ascolto di questo tipo, a parte la tentazione di farlo girare immediatamente dall'inizio alla fine, è quella che non riesco proprio a capire come in qualche modo questo lavoro possa per qualcuno 'stonare' o essere brutto o in qualche maniera insufficiente. Questo non significa che ci troviamo davanti a un capolavoro né che si tratti di un disco destinato a passare alla storia o che lo inserirete per forza nella vostra 'top ten' alla fine dell'anno 2017. Ma non ci sono dubbi che magari durante queste giornate estive possiate alla fine scoprire che sia questo il disco più adatto a essere la vostra colonna sonora di questo particolare momento. Se ci riuscite, magari innamoratevi e vivete questo periodo nella maniera più gioiosa possibile: tutto allora forse suonerà ancora più bello e qualcuna di queste potrebbe diventare la VOSTRA canzone.

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