Dai turbolenti virtuosismi del violino nel celebre Concerto di Vivaldi detto "La tempesta di mare" alla vastità del "maaaaaaa... re", direttamente proporzionale al numero di "a", evocata da molte canzoni di Ivano Fossati.
Dall'insuperabile trittico dipinto da Debussy nel poema sinfonico "La mer", in cui l'ascoltatore senza troppo sforzo può perdersi nei giochi del vento e delle onde, all'inquietante sensazione di immensità che si prova di fronte all'Atlantico, più che avvertibile nella musica dei portoghesi Madredeus...

Non si finirebbe più di citare il mare come fonte di ispirazione per musicisti di ogni tempo e di ogni genere, purché dotati di una certa ambizione, dato che il compito di rappresentarlo in forma di note non è dei più facili. Se poi gli strumenti sono quelli del jazz, che per forza di cose non può offrire la varietà di voci e la gamma quasi infinita di sfumature di un'intera orchestra, l'impresa sembra ancora più ardua.
Ma non certo da impensierire un Herbie Hancock ispiratissimo e assai sicuro di sé, come quello che nel 1965 introduceva il suo fantastico "Maiden Voyage" con note di copertina che non lasciano dubbi sulla sua natura di concept-album sul mare e sulla vita acquatica.

Il titolo stesso ci parla del viaggio inaugurale (maiden voyage) di una nave, della scoperta di un mondo magico e inviolato (la parola "maiden" ha anche la valenza di "vergine, incontaminato") da parte dell'equipaggio, che come nei migliori "romanzi del mare" di Conrad è tutt'uno con la nave stessa e sembra trasmettere a questa le proprie sensazioni di stupore e di novità.
L'occhialuto pianista di Chicago aveva ottime ragioni per essere caricato a mille: da due anni era entrato a far parte del quintetto di Miles Davis, il che più o meno equivale ad una consacrazione. In "Maiden Voyage" abbiamo il sommo piacere di ascoltare questa formazione, con l'eccezione della tromba, per la quale ci dobbiamo "accontentare" dell'eccellente Freddie Hubbard al posto dell'inarrivabile Miles. Completano il quintetto George Coleman al sax tenore, Ron Carter al basso e Tony Willams alla batteria.

Il viaggio inaugurale ha inizio come meglio non si potrebbe, con il brano che, oltre a dare il titolo all'album, lo indirizza decisamente verso l'elemento acquatico. In "Maiden Voyage" fin dall'attacco si apprezza un ritmo dal perfetto moto ondoso, fondato sulla ripetizione costante di un semplice nucleo di tre note, con la terza leggermente staccata. È come un sordo rumore di fondo, ovattato ma tenace. Inizialmente è affidato al pianoforte e al basso, ma quando Hancock esce allo scoperto per spargere le sue preziose note perlacee, è il solo basso che, sempre con lo stesso dondolio, continua a cullare la nave. Ad arricchire questa suggestione contribuisce il grande lavoro di spazzola della batteria di Tony Williams, con un effetto schiuma veramente miracoloso, al limite dell'onomatopeico.
Su uno sfondo già di per sé‚ animato, le calde voci della tromba e del sax disegnano con i loro fraseggi trame elaborate, ma mai caotiche. "The Eye Of The Hurricane" è un concentrato di energia: basso e batteria impongono cadenze accelerate e gli altri strumenti stanno egregiamente a ruota, a cominciare dalla tromba di Hubbard, il cui assolo è un vortice di note veramente degno di rappresentare un uragano. Segue, con furia quasi coltraniana, il nervoso sax di Coleman, e infine Hancock, che da parco dispensatore di note si è trasformato in una mitragliatrice di suoni, sempre comunque nitidi e lucenti.

Con un po' di fiatone arriviamo a "Little One", strategicamente piazzata a metà disco, come l'intermezzo tra i due atti di un'opera. È un tributo a Miles Davis, ed è l'unico brano senza alcun rapporto con il tema marino, anche se con un po' di fantasia non è difficile associare questa splendida "ballad" alla vista di una baia, magari di prima mattina, con il mare leggermente increspato (dai piatti di Tony Williams, che ormai ci ha preso gusto, esce una tenue schiuma bianca che si dissolve in un attimo).
"Survival Of The Fittest" ("La sopravvivenza del più adatto") è un quadro darwiniano, se la Santa Sede mi passa l'uso di questa parola. La vita acquatica mostra il suo aspetto più cinico e impietoso: il pesce grosso ingoia il più piccolo, i tentacoli assassini delle piovre sono in agguato dietro ogni angolo, e così via. Il ritmo è necessariamente agitato e diseguale; le voci dei vari strumenti esprimono l'angoscia delle creature in pericolo, oppure la grottesca soddisfazione dei predatori. Fenomenale in tal senso l'entrata della tromba di Hubbard, con un urlo diabolico che non stonerebbe in un film giallo, e in effetti questo brano si può considerare una specie di thriller acquatico.

Chiude questa corta ma splendida galleria il quadro più gioioso, "Dolphin Dance", con i guizzi fantasiosi dei più intelligenti animali marini, mirabilmente descritti dagli assoli di Hubbard, Coleman e Hancock, in rigoroso ordine di apparizione (anche perché‚ a questi livelli stabilire un ordine di gradimento sarebbe davvero arduo). Carter e Williams creano una base ritmica moderatamente effervescente, ravvivata dall'ormai collaudato effetto schiuma della batteria. Il risultato è un prodigio di raffinatezza e di pacata vivacità, se mi si consente quello che la gente dotta usa chiamare ossimoro. Difficile chiudere in modo migliore questo capolavoro del jazz, godibilissimo e concettualmente moderno, ben al di là di quello che ci si può aspettare da un disco di 41 anni fa.

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