Tra gli innumerevoli omonimi che girano nel mondo musicale oggi ve ne propongo uno particolarmente legato al mondo del metal: nacque a metà degli anni 60 in Inghilterra un gruppo formato da Barry Skeels, Steve Drewett, Chris Rose ed Alan Hooker, dedito ad una musica che racchiudeva in se elementi progressive, blues, hard rock e accenni a quello che anni dopo sarebbe diventato un fenomeno chiamato doom metal. Il gruppo in questione risponde al nome di Iron Maiden che, come spero si sia intuito, non c’entra assolutamente nulla con la vergine d’acciaio di Steve Harris, anche se pure in questo caso ci troviamo davanti ad una band dalle indubbie qualità artistiche.
La line-up che incise il disco di cui tratteremo ora vedeva tra le sue fila: Drewett alla voce, Thoms alla chitarra e alle backing vocals assieme a Skeels al basso e Paul Reynolds alla batteria.
Prima di arrivare al primo disco, credo anche l’unico, chiamato “Maiden Voyage” questi vecchietti ne hanno però dovute passare molte, infatti pur essendo pronto già nel 1970, a causa della chiusura dell’etichetta i nostri hanno dovuto aspettare fino al 1998 per vedere il loro lavoro finalmente pubblicato.
Nonostante le musiche scorrano via in maniera alle volte rilassata, in alcuni frangenti paiono addirittura allegre, il disco presenta delle liriche estremamente oscure come ad esempio quella di “God Of Darkness” che narra la venuta sul mondo del demonio.
L’apertura del disco viene affidata a “Falling”, episodio marcatamente venato dal blues americano ed al quale si legano influenze zeppeliniane. Il ritornello della canzone che ripete in maniera pedante “you must falling down” accentua un poco il senso di oscurità che viene espressa dai testi. Ottimo il solo di chitarra offerto dal signor Chris Rose che si dimostra oltre che estremamente tecnico, anche dotato di un groove che oggi molti chitarristi neanche sognano; da lodare anche però il lavoro di basso estremamente curato e ben presente, che non solo disegna assieme alla batteria una base ritmica corposa ma discreta, esso riesce a comporre delle linee melodiche di assoluto rilievo che danno alla composizione uno spessore ancora maggiore; a seguire troviamo “Ritual”, decisamente più ispirata al progressive rock settantiano, con un occhio sempre attento all’anima più hard rock che rende il tutto un pizzico più selvaggio. Questo “Ritual” sembra uscito da un incontro tra i Black Sabbath meno oscuri e i King Crimson meno barocchi, con un risultato davvero buono.
La breve “Ned Kelly” si riallaccia al blues/hard rock del primo pezzo, risultando però più diretta e meno elaborata, basata ancora una volta su un lavoro di chitarra encomiabile. Sempre “catastrofiche” le liriche che non smentiscono l’impressione di voler shockare l’ascoltatore.
Si arriva così alla suite (sempre che di suite si possa parlare) dell’album: una composizione di oltre dodici minuti chiamata “Liar” nella quale i nostri giocano a fare i Led Zeppelin con un risultato non proprio perfetto: sono infatti troppi i richiami a canzoni quali “Whole Lotta Love”, specie per quanto concerne il comparto melodico. Pur non essendo un pezzo brutto rappresenta comunque un’occasione mancata in quanto, con tutto questo tempo a disposizione i nostri avrebbero potuto creare qualche cosa di più originale e meno derivato.
Introdotta da note di basso, al quale poi si lega la chitarra solistica, con un sottofondo di armonica a bocca che da un flavour western alla canzone. Questa “CC Ryder” risulta essere, a differenza del precedete episodio, uno dei pezzi forti del disco, grazie al ritmo estremamente cadenzato, ma anche grazie ad un Drewett che si dimostra un cantante sia dotato dal punto di vista tecnico che da quello espressivo. Gli otto minuti e ventisei secondi di “Plague”, tornano invece a calpestare territori più vicini al rock oscuro di casa Sabbathiana, con continui accenni (profetici) a quello che sarebbe stato il movimento doom. A spezzare quest’atmosfera estremamente cupa, sottolineata dalle linee chitarristiche e dalla voce, ci pensa questa volta Reynolds con la sua batteria chiaramente ispirata alla tradizione progressive, con qualche accenno ad uno stile più tipicamente jazzato.
“Ballad Of Martha Kent” è, come presagibile dal titolo, la ballad del disco, anche se parlare di ballad risulta essere quasi azzardato, perché è comunque percepibile una certa tensione nelle musiche e nelle linee vocali estremamente sofferte e tristi. La chiusura viene affidata al pezzo più hard dell’intero platter: “God Of Darkness”, uno dei primi prototipi di quella musica che verrà poi riproposta dai Black Sabbath e da tutto quel movimento che farà della musica oscura il proprio cavallo di battaglia (e mi sto riferendo anche a gruppi ben più moderni quali Venom et similia).
Ora, bisognerebbe un attimo riflettere sul perché, già allora, alcune case discografiche preferissero volgere il loro sguardo verso gruppi meno meritevoli (non mi sto naturalmente riferendo ai mostri sacri, ma a gente che ha avuto magari il suo momento di gloria, anche se breve) e lasciare nell’ombra un lavoro davvero eccezionale che se fosse stato preso in considerazione avrebbe, secondo mio personalissimo parere, potuto fare furore.
Dedicato a tutti quanti coloro che hanno amato (e sono sicuro che qui in mezzo non sono pochi) "Paranoid" dei Black Sabbath.
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Altre recensioni
Di Cristo
"God Of Darkness [...] è considerata insieme a 'Hand Of Doom' una delle prime canzoni che diede poi vita al genere chiamato doom metal."
"Lo stile del chitarrista Trevor Thoms somiglia molto a quello di Tony Iommi, in particolare negli assoli sempre molto veloci."