Somewhere in Time, ovvero, lontano nel tempo.

Allora andiamo lontani nel tempo, andiamo indietro di 20 anni e siamo nel 1986: i Metallica pubblicano Master of Puppets e consacrano il thrash metal insieme a Megadeath e Slayer, i Manowar e i Virgin Steele gettano le basi per l'epic metal e gli Helloween il power metal, il glam di Def Leppard e Mötley Crüe vende tantissimo. In poce parole l'heavy metal sta conoscendo il momento più florido della sua storia.

A confermare questa popolarità dell'heavy metal c'è anche la presenza di un gruppo che raggiunge proprio in questo periodo l'apice della sua carriera, dopo oltre 300 concerti in due anni (tra l'84 e l'85) seguiti da milioni di spettatori, gli Iron Maiden si apprestano a sconvolgere un altra volta la scena metal. Dopo dischi estremamente duri, soleni ed epici come Powerslave e Piece of Mind, la "Vergine di ferro" pubblica un disco estremamente controverso: abbandona gli scenari di faraonici del recente passato e si butta a capofitto nel futuro. Già in copertina vediamo un Eddie completamente spellato che si trova tra grattacieli ed astronavi volanti. La copertina cela anche molte particolarità e ricordi degli Iron, come un orologio che segna le 23:58 (2 Minutes to Midnight) e bar che portano nomi celebri come il Rainbow e il Marquee in cui suonavano nei loro primi anni.

Lo schock arriva al primo ascolto del disco: sintetizzatori e tastiere entrano a manetta, ma le cavalcate indiavolate di Harris, i lunghi assoli incrociati del duo Smith-Murray e la solita voce acuta e potente di Dickinson fanno capire che le caratteristiche di base dei Maiden sono rimaste intatte.

Dopo aver ascoltato la prima canzone, "Caught Somewhere in Time", rimane un po' di delusione: bella canzone, ma eravamo abituati alle varie "Aces High, Prowler" e "Where Eagles Dare" come intro ai dischi mentre l'ascolto di questa canzone, per quanto possa essere bella, rimane anonimo. Ma la seguente "Wasted Years" cancella ogni amarezza: un capolavoro scritto a due mani da Adrian Smith, bellissimi gli assoli e le orchestrazioni delle tastiere. "Sea of Madness" ha un bel ritornello, ma per il resto vale lo stesso discorso della prima canzone, mentre per "Heaven Can Wait" non ci resta altro che rimanere in silenzio. Bellissimo l'intro di basso, la parte cantata di Dickinson che riporta a 'Number of the Beast' da cantare a squarciagola con lo stereo al massimo. Molto bella anche la parte degli assoli, ma il culmine lo si raggiunge nel coro di Dickinson (oooohooohohoooo).

La seguente "The Loneliss Of the Long Distace Runner" sembra inizialmente demente, ma con il passare dei minuti si viene trascinati dalla ritmica incalzante di McBrain e dai riff di chitarra e si finisce cantando a squarciagola il ritornello. La splendida "Stranger in a Strange Land" è un altro grandissimo punto per il gruppo, mentre "Déja-vu" è da segnalare come unico riempitivo di questo disco. Si finisce con la mitica "Alexander the Great", brano inizialmente molto cupo e misterioso che cresce fino all'apoteosi delle due chitarre soliste: miglior brano del disco, purtroppo mai suonato in sede live.

Questo cd ha portato nella bacheca del gruppo ben due dischi di platino e il tour che lo ha seguito è stato eccezionale, nonostante alcuni fan si siano arrabbiati per il cambiamento di sound con l'introduzione dei sintetizzatori e delle tastiere. Si dice che nell'87 i Maiden siano il gruppo con più sostenitori al mondo...

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