La chiave la fornisce lo stesso Zeno nel capitolo conclusivo: "una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!".

Il grande tema della "bugia" che in "Senilità" era circoscritto ad un solo personaggio e utilizzato da questi per difendere l'inalienabile diritto alla libertà personale, deflagra completamente nella "Coscienza" ma con una differenza decisiva: l'impianto narrativo costruito da Svevo.

Le menzogne che Angiolina rifilava ad Emilio Brentani - amante gelosissimo e perciò esasperante, opprimente e ridicolo - erano smascherate di volta in volta dal racconto in terza persona in cui le intrusioni autoriali confutavano quanto la donna diceva attraverso una prassi volta a cercare una sorta di complicità con il lettore che restava basito di fronte alla cecità del povero innamorato.

Le memorie di Zeno invece sono raccontate in prima persona, è l'Io-narrante che architetta il mondo narrato e l'unico punto di riferimento è la sua voce.

E com'è la voce di Zeno? Subdola, infida, capziosa, vagamente autoapologetica, infarcita di lapsus, sempre elusiva e mai salda.

Quel "con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!" non pare altro che l'ennesima menzogna attraverso la quale il protagonista giustifica tutte le precedenti. Se è vero infatti che la lingua italiana al tempo in cui Zeno scrive è da considerarsi quasi un idioma straniero per gli abitanti di Trieste - tanto che "parola toscana" viene utilizzato al posto di "parola italiana" - il sospetto che anche questa volta non dica tutto ciò che pensa è grande. C'è dell'altro.

Il punto è che - essendo la narrazione in prima persona - non abbiamo niente per riempire i vuoti lasciati da Zeno: le sue bugie sono sostituite dal nulla e quel "nulla" è la sola alternativa al "tutto" che è narrato.

Ma perché Zeno mente? Ed anche: le sue sono menzogne coscienti oppure si configurano come una strategia difensiva inconscia?

Nella finzione letteraria messa in scena da Svevo le memorie di Zeno sono redatte dallo stesso su invito dello psicologo ("scriva, scriva! Si vedrà tutt'intero!") per guarire da una sorta di inerzia congenita, di complesso d'inferiorità che viene somatizzato in intermittenti dolori alle membra e sistematiche crisi d'ansia.

La nascente psicanalisi - ricordiamo che la "Coscienza" è stato scritto nel 1923 - era stata una vera rivoluzione copernicana nel modo di considerare il sé inserito in un contesto sociale, ma Svevo - sdegnoso scettico e fiero anti-positivista - la considerava solamente quale uno strumento da e per romanzieri piuttosto che una cura infallibile contro lo spleen dell'uomo moderno.

Zeno non è certamente un doppio di Svevo, ma se è vero che l'autore "presta" numerose esperienze personali - l'ossessione per il fumo, per esempio - al suo personaggio, lo è altrettanto il fatto che il personaggio si "impossessava" del suo autore che si scopriva a pensare o a camminare come il suo personaggio prima di procedere a scrivere. In una lettera a Montale che chiedeva delucidazioni sul romanzo Svevo rispondeva che si trattava di "un'autobiografia, ma non la mia" coniando una formula che sembrava indicare un genere letterario misto che ibridava il pensiero autoriale con l'interpretazione del personaggio di derivazione stanislavskijana.

Io credo che possano essere sostenute entrambe le tesi: Zeno mente perché si fa portavoce di un credo autoriale oppure perché, da personaggio autonomo, non può fare altro per "difendersi" dall'invadenza dello psicologo.

Non solo, è proprio mentendo che si garantisce la guarigione come attestato alla fine del romanzo.

Io non so se Svevo conoscesse l'opera di Dostoevskij, ma, se le bugie leniscono la malattia, è un'idea che l'autore russo aveva già esposto parecchio tempo prima: "non c'è nulla di più piacevole che parlare della propria malattia, pur di trovare un ascoltatore; e quando si comincia è ormai impossibile non mentire; è una cosa che serve perfino di cura all'ammalato".

Con buona pace del potere salvifico della psicanalisi, Svevo degrada la figura dello psicologo a mero ascoltatore passivo delle bugie del paziente.

Ma non è ancora tutto.

Nella "Coscienza di Zeno" la psicanalisi è utilizzata quasi come trampolino per arrivare ad una costruzione romanzesca potenzialmente infinibile.

Dopo la pubblicazione del romanzo Svevo riprese in mano le peripezie di Zeno attraverso le "Continuazioni": cinque frammenti slegati tra loro che mostrano uno Zeno ormai ultrasettantenne che si ostina a scrivere le sue memorie.

Ma se si è ormai liberato dall'odiata psicanalisi perché lo fa?

Anche in questo caso la chiave la fornisce lo stesso Zeno: "l'unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch'io ho, tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell'umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l'altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto all'orrida vita vera".

Una prospettiva in cui ciò che sarà scritto - e sia pure una menzogna - servirà a slatentizzare quell'energia vitale così necessaria a superare determinate crisi esistenziali e quello che sarà celato - e dunque costituirà il tesoro nascosto di ognuno - si fonderanno diventando così il solo antidoto contro le miserie quotidiane, il distillato più puro della vita degli esseri umani che si libererà delle zavorre avventizie di tutti i giorni in un processo potenzialmente infinibile.

È possibile - se non probabile - che a questa soluzione Svevo sia arrivato grazie al suo amico James Joyce, in particolare riferendosi al soliloquio di Molly Bloom nell'"Ulisse" dove il "punto" finale era messo soltanto per un arbitrio autoriale, ma che avrebbe potuto estendersi senza soluzione di continuità.

Il "punto" finale per Svevo fu l'incidente stradale che gli tolse la vita in quel di Motta di Livenza privandoci del suo quarto romanzo che probabilmente avrebbe avuto ancora Zeno come protagonista, lui e le sue bugie.

E noi poveri lettori, defraudati della parte di passivi ascoltatori, saremo per sempre privati di una delle più grandi beffe concepite nella storia della letteratura.

Quella di un personaggio fittizio che si libera dalle sue angosce grazie alle menzogne che racconta a persone in carne ed ossa.

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