Buongiorno ragazzi, com'è andata la lezione di musica dell'ora precedente con il professor Eliodoro? Era arrabbiato perché non avete ancora finito la ricerca sulle band tedesche dei '70? Ma siete ancora tutti vivi o devo fare l'appello? No perché sapete, mi dispiacerebbe se qualcuno fosse assente oggi, poiché, nella nostra consueta lezione di prog, affronteremo un argomento oscuro e particolarmente ostico, ovvero l'acid folk. Sì, si, abbassate pure le mani, lo so che siete preparati e che "First Utterance" risuona insistentemente contro le vostre tempie come esempio dell'eccellenza raggiunta dalla commistione della suddetta vena di folk con le caratteristiche del progressive, ma oggi parleremo di un'altra vetta altissima conquistata da quest'improbabile quanto misconosciuto sottogenere, un diamante perduto dal valore inestimabile, intagliato nel 1971 da tre ragazzi inglesi... Ma partiamo dall'inizio.
Aprite il libro a pagina 1969 (si, è un mattone enorme, lo so) e vedrete due giovani polistrumentisti dello Yorkshire, Derek Noy e Michael Bairstow, intenti a formare un duo: i Jan Dukes de Grey. L'esigua formazione, un anno dopo la propria nascita, realizzò Sorcerers, un disco prettamente folk formato da brevi composizioni acustiche dai sapori pastorali, piuttosto distanti dai canoni del rock progressivo, ma non per questo prive di originalità e fascino, tanto che, ancora oggi, tale esordio è tenuto molto in considerazione dai saggi e dagli studiosi di generi musicali arcani ed obliati dal tempo.
Ma torniamo al 1971 e facciamo la conoscenza del batterista Danis Conlan, terzo ed ultimo membro del gruppo, che si unì alle eccezionali doti fiatistiche di Michael (addetto a flauto, clarinetto, tromba, sassofono nonché a tastiera e percussioni) ed alla maestrìa di Derek con le corde (sia vocali, con il suo riconoscibilissimo timbro leggermente indemoniato, sia strumentali, suonando egregiamente basso e chitarra elettrica o a dodici corde), donando alla sonorità prodotta dal piccolo complesso, una maggiore incisività ritmica, derivante in atmosfere a tratti più aggressive e imprevedibili ed in propulsive e sconsiderate fughe al limite dell'improvvisazione. "Mice and Rats in the Loft" vede anche l'aiuto di una piccola orchestra che, archi e fiati alla mano, avvolge ed ammorbidisce in maniera perfetta i suoni graffianti prodotti dal cuore della band, donando un'aria ancor più epica alle composizioni, senza però scadere in pomposi ed eccessivi interventi fini a sé stessi.
La suite iniziale "Sun Symphonica" ci mostra tutto l'esplosivo potenziale del terzetto, alternando momenti eleganti e delicati, dominati dal flauto, cullato dalle languide note scaturite dai violini, ad altri aspri e sincopati in cui la voce di Derek, di pari passo con la sua dodici corde, demolisce ogni utopico miraggio di consuetudine e stabilità, catapultando l'ascoltatore attraverso paesaggi bucolici e fantastici, permeati però di un'impalpabile ma chiaramente distinguibile clima di minaccia. L'ossimoro tende a ripetersi anche in seguito, durante "Call of the Wilds", in cui il tema fiabesco trapuntato dal flauto sempre più dolce di Michael e dai carezzevoli controcanti femminili affiancati alla voce principale, viene spazzato via ancora una volta dalla chitarra, la quale, dopo una lunga digressione solista, intorbidisce le cristalline acque sonore finora sgorgate, con cupi deliri realizzati grazie alla complicità del sassofono. La situazione precipita irrimediabilmente al suono lacerante della sirena che introduce la title track, infestata dalla chitarra elettrica, qui in preda ad una vera e propria psicosi, e dal canto altrettanto folle del solito Derek, caratterizzato da un testo particolarmente disturbante e cruento, destinato a sposarsi magnificamente con l'incatalogabile improvvisazione finale.
Ciò che resta al concludersi dell'ascolto è la certezza dell'impressionante valore sia tecnico che compositivo del gruppo, unita alla straripante amarezza data dal pensiero che l'indifferenza e la superficialità generale siano purtroppo riuscite a mietere un'altra vittima, nascondendo le tracce di un gioiello imprescindibile di prog-folk mai debitamente decantato e apprezzato fino in fondo. Bèh, che dire di più, il tempo a nostra disposizione è finito, ci vediamo alla prossima lezione e mi raccomando: non perdete tempo dietro a libri di testo che non incontrano il vostro interesse, ma seguite le cose che vi piacciono e vi fanno sentire liberi e se il prog è una di queste, allora procuratevi il disco di cui vi ho parlato. Non ve ne pentirete.
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