Il viaggio promette bene fin dall'inizio: un fitta nebbia di sintetizzatori, una scia schiumosa di percussioni, un basso che brontola costante e uniforme come un motore. La nave avanza alla cieca nella nebbia e nel buio, ma all'improvviso uno squillo più acuto di una sirena squarcia le tenebre e illumina per un attimo il luogo in cui ci troviamo: è un fiordo norvegese, da cui stiamo uscendo per un lungo viaggio nella musica del mondo, guidati da un capitano di nome Jan Garbarek. È lui che suona il magico strumento capace di perforare i banchi più fitti, regalandoci lampi di trasparenza assoluta, un sax soprano dal suono apparentemente freddo e innaturale, che nel corso del viaggio si rivelerà perfettamente in grado di illuminare e colorare ogni tipo di scenario.

"Rites", primo brano dell'omonimo doppio album, dà veramente quella sensazione di ansia impaziente che precede un'avventura, ma lo stesso tema si rivela ugualmente adatto a suggellarne la conclusione in "Last Rite", nel quale è facile immaginare il ritorno al fiordo da cui eravamo partiti. Di Jan Garbarek è stato detto molto, e non sempre in termini positivi: i puristi del jazz gli rinfacciano un'eleganza troppo formale, da new age, e d'altra parte i cultori della new age trovano troppo jazz nella libertà con cui il suo sax svaria, partendo da melodie lineari e impeccabili. Chi vuole a tutti i costi incasellare un artista in un genere con Jan Garbarek avrà vita dura, perché il sassofonista norvegese concentra in sé world music, jazz, new age, folk nordico e anche musica elettronica, e sicuramente ci sarà qualche altro genere che lo ha influenzato. Ma lasciamo fare il Linneo a chi lo fa di mestiere e veniamo invece alla sostanza, che nel caso specifico si presenta sotto forma di splendide melodie, cantabili ma non banali, di volta in volta malinconicamente scandinave, serenamente orientali, festosamente africane o latine. Jan Garbarek conosce la musica etnica come le sue tasche, e il suono del suo strumento, pur essendo "sempre quello", inconfondibile, in nessuna delle molteplici prove che affronta dà l'idea di essere fuori posto o eccessivo. Merito anche del valido sfondo dipinto dai suoi fedeli comprimari, sempre in secondo piano rispetto allo strumento principe, ma indispensabile per farne risaltare la brillantezza. Spiccano i sintetizzatori di Rainer Bruninghaus, con il loro torbido effetto nebbia, ma non meno importanti sono le versatili percussioni di Marilyn Mazur, che passano da un ticchettio appena accennato nelle "ballads" più languide ad un festoso baccano tribale nei brani più etnici, e il potente basso di Eberhard Weber, il motore di questa immaginaria nave. Una delle tappe più affascinanti di questo lungo e ricco viaggio è posta subito dopo la partenza. "Where The Rivers Meet" non è un luogo geografico, ma piuttosto un luogo dell'anima, l'incontro di vari fiumi di sensazioni, fuse nel rombo ossessivo di un tamburo africano, che esalta una melodia semplice e accattivante. Non sarebbe fuori posto in un album "etnico" di Peter Gabriel. Attraversiamo estese e desolate pianure con l'impressionistica "Vast Plain, Clouds" e le sue dolorose stilettate di sax, per arrivare ad un dialogo intimo, di gusto quasi cameristico, tra Garbarek e Bruninghaus al pianoforte nella triste ma bellissima "So Mild The Wind, So Meek The Water", potenzialmente un tema ideale per la colonna sonora di un film drammatico. Il motivo allegro e fischiettabile e le percussioni latine di "Song, Tread Lightly" spezzano per un attimo la tensione, ma nuovi orizzonti di grandi distese selvagge si aprono con "It's OK To Listen The Gray Voice", ideale per un documentario sulle ultime terre incontaminate, con un nitido assolo del pianoforte, che per un attimo ruba la scena al sax soprano. "Her Wild Ways", interessante e piacevole commistione tra ritmi latini e sonorità fusion, chiude un primo disco perfetto.

Meno perfetto ma più vario è il secondo, che inizia con le travolgenti percussioni di "It's High Time", assecondate da Garbarek con raffiche di acuti penetranti. Del tutto opposta è la sfumata delicatezza di "One Ying For Every Yang", forse il momento più new age del disco, con le sue percussioni "accarezzate" e il dolce fraseggio del sax. "Pan" è un'altra pausa di riflessione, modellata sullo stile delle più tenere "ballads" del jazz, non priva di qualche influenza classica nella parte pianistica. Introduce quella che sarà la divagazione più vistosa del nostro viaggio, che inizia con "We Are The Stars", in cui al già prezioso tessuto musicale di partenza si aggiunge un celestiale coro di voci bianche, con esito sublime, che fa pensare più all'immortale Requiem di Fauré che ad un canto degli indiani d'America, da cui il testo è tratto. Segue un concentrato di pura melodia, "The Moon Over Mtatsaminda", in cui sax e strumenti elettronici tacciono per lasciar posto alla voce appassionata di Jansug Kakhidze, accompagnato dall'Orchestra Sinfonica di Tbilisi (di cui è direttore) che ci dà un piccolo ma significativo saggio dei tesori nascosti in tradizioni musicali a noi sconosciute, come quella georgiana. In "Malinye" pare di essere trasportati di colpo nel clima dimesso e crepuscolare di certi spettrali valzer di Tom Waits, con un esile suono (elettronico) di fisarmonica che fa da labile sostegno ad un sax per l'occasione meno squillante del solito; simile, anche se appena un po' più corposo, è il suono della successiva "The White Clown". Una specie di carillon fatto di tastiere e di campanellini ci ipnotizza durante "Evenly They Danced", rendendoci meno amaro l'inevitabile ritorno.

Quando si riaccende il motore del basso di "Last Rite" è segno che questo entusiasmante viaggio di quasi due ore di musica ormai è alla fine, ma dentro di noi c'è un pieno di impressioni e di colori, che non svaniranno presto.

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