Parlare dei miei artisti preferiti è sempre stato un bel dilemma: qualsiasi cosa tenti di dire o scrivere finisce per diventare un polpettone di cazzate altisonanti e nonsense. Credo di averlo testato in migliaia di righe scritte e poi cancellate per l’imbarazzo. Da una parte mi suona stupido presentare qualcosa che amo profondamente come se stessi vendendo un tapis roulant su Media Shopping; d’altro canto sembra comunque inutile parlarne a mò di soliloquio sbrodoloso e melodrammatico, considerato che in una recensione un minimo di trasparenza bisogna pur mantenerla. Il problema sta sempre in quel fottuto “giusto mezzo” che non riesco mai a raggiungere e nonostante ciò, fatte le dovute (e inutili) premesse e ben conscio di questo problema idiota, eccomi sul punto di fare una cosa altrettanto idiota: mi butto su quello che è probabilmente il disco più difficile ad opera della mia futura moglie, nientepopodimenoche Joanna Newsom.

Mentre cerco di guadagnare tempo, la prima domanda che sorge sponte è: perchè mai “Have One One Me” dovrebbe essere il suo disco più “difficile”? La risposta è semplice: perchè deve per forza di cose confrontarsi con “Ys”; e per uno che come me considera “Ys” la cosa più bella che abbia mai sentito (vi giuro che non sto scherzando) ciò può rappresentare un bel grattacapo. Per un artista, replicare un capolavoro come quello è prima di tutto superfluo e rischioso, dato che facilmente scadrebbe nel bieco manierismo, oltre che nell’autocelebrazione; e sarebbe comunque umanamente impossibile. Si presenta quindi il primo inevitabile (e ovvio) ostacolo/obiettivo cui un artista deve pur far fronte, prima o poi: il cambiamento. E di cambiamenti, per fortuna, in “Have One On Me” ne troviamo a iosa.

La Joanna di “Have One On Me” non è più la stessa bambina estrosa di “The Milk-Eyed Mender”, e pure le incredibili suites di “Ys”, dal ritmo e dalla parlantina frenetici, sembrano un lontano ricordo. Eppure non si può neanche dire che la folletta americana abbia perso la propria gran voglia di fare, anzi: “Have One On Me” si presenta con una mole di contenuti a dir poco scoraggiante nei suoi immensi 124 minuti di durata spalmati su ben tre dischi, e già alla luce di tutto ciò possiamo affermare di essere di fronte al suo lavoro più ambizioso, tanto nella forma quanto nei contenuti. Da un lavoro del genere, che in sè raccoglie molteplici influenze, schemi e atmosfere, Joanna non poteva non uscirne rinnovata. Se quindi il suo primo album corrispondeva alla giovinezza, con la sua freschezza e spontaneità, e “Ys” al consolidamento delle proprie (immense) doti, “Have One On Me” è il passo (ma viste le proporzioni dell’opera direi anche una decina) verso e forse oltre la maturità.

Scomparsa la vena sbarazzina degli esordi; fuori gioco le atmosfere sublimi (e credetemi, non esiste aggettivo migliore per descriverle) di “Ys”; a ciò si aggiunge l’evidente cambio di tono della tanto amata/odiata (ma sempre inconfondibile) voce della Newsom, probabilmente a seguito dei noduli alle corde vocali avuti un paio d’anni fa: coincidenza o no, la sua “nuova” voce, ora ben più soffice e calibrata rispetto agli urletti indomabili di prima (a tal proposito qualche detrattore potrebbe ravvedersi), si sposa perfettamente con le nuove fattezze della propria arte.

La veste musicale di “Have One On Me” è sovrabbondante, esosa, molto ricercata; al punto da essere parecchio difficile da inquadrare immediatamente, magari senza lasciare alcunchè ai primi ascolti e risultando addirittura inconsistente. Ma la minuzia non è puttana e i dettagli non si prestano mai senza fatica: ci vuole tempo, e proprio il tempo sembra il problema principale di questo enorme album. E sottolineo, sembra...

Anzitutto non siamo di fronte ad un album dalla rigorosa coesione concettuale, e già questo sarebbe sufficiente da giustificare un ascolto spezzettato, sparpagliato, passeggero se vogliamo. Ogni pezzo basta a se stesso e non è affatto necessario seguire un certo ordine nei brani, così come non è necessario spararsi in endovena l'intero album. Possiamo tranquillamente gustarci un disco per volta; possiamo dimezzare la tracklist e ascoltarlo in due parti; possiamo balzare da un brano all’altro, da un disco all’altro senza perdere un filo del discorso che di fatto non esiste. In conclusione: la durata del disco è la sua debolezza? No; piuttosto, l’estrema versatilità è il suo punto di forza. “Have One On Me” può essere brandito in mille modi, talmente è vasto; e proprio la sua grandezza lo rende sempre più diverso, sempre più nuovo ad ogni ascolto che passa.

Quanto ai contenuti strettamente musicali, c’è di che sbizzarrirsi: lo stile della Newsom è più eclettico che mai e si adagia comodamente tra raffinata musica da camera, cantautorato elegante ed intimista, folk dallo spirito libero, all’avanguardia, sempre un po’ stravagante, buttando ogni tanto nel calderone un po’ di country, un po’ di blues, o addirittura catapultandosi in Estremo Oriente. Non sorprende perciò che Joanna si sia avvalsa anche stavolta dei più disparati accompagnamenti, dalla batteria agli archi, dai fiati ai pizzicati, con la sola differenza che, mentre in “Ys” soprattutto gli archi tracciavano melodie spesso imprevedibili e svincolate dall’ossatura dei brani, ora tali arrangiamenti sono parte integrante della canzone e fanno capolino con discrezione, senza mai invadere la scena, adattandosi così all’umore pensoso e malinconico che pervade quasi tutto l’album. Naturalmente i protagonisti indiscussi di tutto il progetto restano (inutile dirlo) Joanna, la sua arpa e, di tanto in tanto, il suo piano.

La verve incontenibile che animava musiche e testi di “Ys” sarà anche andata, ma Joanna non ha perso una briciola della sua ricercatezza formale e lirica: i testi vantano sempre di un linguaggio sofisticatissimo (seppur molto meno simbolico di “Ys”) e al contempo ironico/scanzonato, mai e poi mai ripetitivo, e le melodie, perfettamente appaiate alle ritmiche dei versi, traboccano delle interminabili poesie/racconti che la piccola grande Joanna è ormai solita propinarci instancabilmente. Doppio miracolo, se consideriamo che tali livelli vengono costantemente mantenuti per tutta la modica durata di oltre due ore!

“Have One On Me” è un album libero: possiamo trovare branetti di due o tre minuti così come colossi di otto, nove o undici minuti. In essi la sostanza viene trattata con grande libertà interpretativa, passando dalla semplice forma canzone per sola arpa (“’81”, “Jackrabbits”), a lunghe suites fuori dal tempo che si schiudono placidamente in toccanti, intensi climax (“Autumn”, “In California”), a tripudi di pizzicati dalla squisita coda strumentale (“Go Long”), fino a brillanti ballate dal retrogusto country (“Good Intentions Paving Company”) o fragili blues per pianoforte (“Does Not Suffice”). E in brani come “Esme”, “Kingfisher” e soprattutto la title-track ci si può aspettare di tutto e di più, perchè la nostra laboriosa cantautrice decide di affrancarsi da qualsivoglia schema, alla faccia della cosidetta tradizione, e si fa un po’ i cazzi suoi: la prima è una poderosa ballatona per arpa dalle melodie fresche e quasi improvvisate; “Kingfisher” sa di antico e di leggenda; “Have One On Me” fa passare i suoi undici minuti in un battibaleno, talmente è cangiante e imprevedibile.

Finora ho solo citato le prime che mi sono venute in mente, il che non vuol dire affatto che siano le migliori o le più importanti: in realtà non c’è un brano che spicca sugli altri, per quanto possa sembrare impossibile in un album che ne conta ben diciotto. Potrei invece confessare che un paio di episodi nel secondo disco non mi prendono più di tanto (i primi due) ma, quando in un album di questo calibro i pregi polverizzano i difetti, un sonoro e sincero “sticazzi” ce lo possiamo tranquillamente concedere.

Insomma, “Have One On Me” è talmente variopinto e ricco di dettagli (e ci tengo a sottolineare come questi non si svelino tanto facilmente ai primi ascolti) che è praticamente impossibile scrivere un reportage traccia per traccia, minuto per minuto, strofa per strofa. Joanna gestisce i temi di ogni canzone con un’inventiva fuori dal comune, abbandonandoli, riprendendoli più avanti, cambiandoli, rivoltandoli... Io stesso che ho ascoltato fino alla nausea questo multi-disco non sono ancora riuscito a saziarmi della sua sconfinata fantasia, men che meno a inquadrarlo interamente.

Prerogativa forse dei più grandi capolavori: così tanta fatica agli inizi, ma così tante soddisfazioni alla fine.

È vero, volevo un altro “Ys”, perchè quello è e resterà il mio più grande amore musicale di sempre.

Ma “Have One On Me” è già diventato il mio amante segreto. Non ditelo a nessuno però, specialmente a “Ys”... Giurin giuretta?

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