§ 3. Polifonie

Per chi della natura e le venature e le indefinite ripiegature e gli inesauribili ritorni ciclici ha fatto propri; e ridisegnati ha già i contorni d’ogni variare nello smussarsi ed acuirsi delle forme a mo’ di polifonie e sempre immanenti al loro raggomitolarsi e dischiudersi e nell’effetto cangiante che questo ha per l’orecchio di chi a tali svilupparsi barocchi è ormai avvezzo.

Questo, sembra così, è il modo di risuonare vago e candido e dello stormire delle foglie e del vuotopieno asciugarsi del tronco screziato e del rannuvolarsi improvviso e di quanto l’iride considera Natura.

A dirle, sembra quasi di tradirle:

Uno: quel che è liscio, piano, cristallino. Lo screziarsi di rosso di giardini e di nembi impalpabili, appena appena un poco malinconici, eppure autunnali e tersi.

Poi, l’ostinato rifiorire e il delicatissimo posarsi delle foglie.

Due: Una fitta al cuore, il rarefarsi della speranza e lo scavare dentro, crescendo e scavando, crescendo e scavando, ancora ancora ed ancora.

Poi, un liberarsi del cuore, amaro e rubicondo a un tempo.

Tre: Una danza vorticosa e concitata, il rifrangersi ora calmo ora impetuoso del ricordo e dell’onda. Intorno, poche forme accennate, abbaglianti.

Poi, con avventata profondità e leggiadria, un ridere sguaiato e chissà cos’altro di meravigliosamente naif.

Quattro: Con quel suo ghiribizzo austero, che si tramuta impercettibilmente in una nenia marcata e fatale. Come un monito, un calore nel mezzo del gelo ed una perdita ormai per sempre offuscata.

E poi,

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