Al terzo disco in poco più di un anno, ho capito che i King Gizzard sono solo apparentemente un collettivo di cazzoni che nascondono invece notevoli doti, sia di scrittura che strumentali. Non si spiega come siano riusciti, in un panorama musicale che definire bulimico è riduttivo, a sfornare in un anno tre dischi completamente diversi e tutti e tre validissimi.

Se “I'm In Your Mind Fuzz” partiva dal pretesto garage per inscenare una opera psichedelica delirante, il successivo “Quarters” alzava ancora di più l'asticella del delirio, con 4 lunghe suite dalla stessa durata, fra West Coast e delirio free form. Quindi era veramente difficile capire cosa aspettarsi da questo “Paper Maché Dream Balloon”. Un indizio lo da già l'artwork, a metà fra quadretto bucolico infantile e Wallace & Gromit; non a caso la musica contenuta rispecchia in buona parte tali premesse grafiche.

Unico trait d'union fra i tre dischi la presenza, qui molto più accentuata, del flauto traverso suonato dal cantante, che sfugge ad ogni manierismo di sorta (anche se il ragazzo non è proprio l'ultimo degli scemi con lo strumento, ANZI) donando una nota soave e sognante a questi 12 quadretti fra folk, psichedelia soffice e pop songs sbilenche. Aprroccio che spazia fra il quasi jazz con clarinetto dell'iniziale “Sense”, passando per le beatlesiane “Bone” e “Dirt”, una titletrack dall'inizio sognante che parte all'improvviso a dorso di mulo verso le campagne inglesi, fino alle nenie barrettiane di “Time=Fate” e a quelle deliranti stile primi Flaming Lips di “Most Of What I Like”.

Sugli scudi due brani. “Trapdoor”, ipnotica pop song mantrica, impossibile da scacciare dalla testa per almeno un mese e “The Bitter Boogie”, blues sbilenco introdotto da un piano honky e condotta con un groove memorabile e un'armonica altrettanto.

Nuovi Flaming Lips crescono.

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