Un’immagine mi attanaglia. Giugno 1995. Laura, è sola al piano a coda nero, vestita con un abito nero. Stava lavorando da alcuni mesi a un paio di nuovi album. Aveva in programma alcune date in California. Il giorno prima però le era stato diagnosticato il cancro alle ovaie, il male che, 22 anni prima, si era portato via sua madre, Gilda. Su quel piano Laura posa una cornice con la foto di Gilda e della nonna materna; le guarda, le scosta leggermente indietro, poi in avanti, e attacca gli accordi di Angel in the Dark. Quindi sospira e intona il suo canto. La scena con le foto sul pianoforte si ripeterà nelle settimane successive, mentre combatteva contro la malattia, spossata dai trattamenti col paclitaxel. Quel canto e quelle note corrono tra la terra e il cielo fino al fatidico, porca puttana, 8 aprile 1997. Aveva 49 anni, proprio come sua madre. Aveva da poco fatto piantare un acero giapponese nel suo giardino di casa a Danbury, nelle campagne del Connecticut (quella casa con le lampade di cartone e il laghetto per le anatre, dove viveva dal giorno che si era lasciata alle spalle New York).



New York era la sua città. Lo Steinway & Sons, il suo piano. La sua sensibilità, la sua arte.
A 17 anni vende la sua prima canzone, And When I Die. A 19 incide il suo primo album, “More Than a New Discovery”.

Eppure Laura, all’inizio, si rifiutava di imparare la semiografia, l’organizzazione ritmica, i vari elementi armonico-melodici; per lei fare musica era dipingere: la musica, una somma di colori; i suoni, sfumature. E come un pittore non lascerebbe mai pennellare i suoi quadri a un altro, così lei scriveva, componeva e arrangiava tutto da sé. Già. Quando le obbiettavano strutture complesse, sofisticate, inestricabili, piangeva. Piangeva lacrime calde. Le sue canzoni sono fatte di quelle lacrime.

Soprano drammatico e blues, fondeva in un lirismo tortuoso le emozioni estatiche della soul music e il pop newyorkese con il jazz, il folk, il gospel, il blues urbano e il rhythm and blues. Uno stile personale e intimo, zuppo di tragicità, tanto ostinato quanto solenne, ma anche capace della fragilità dei sussulti più minimi e delicati. Laura attraversava il musical di Broadway, il gospel delle chiese battiste di Harlem, il Brill Building sound, il jazz dei club e dei bar del Greenwich Village, le voci forti caratteristiche della Motown, i gruppi doo-wop che si esibivano nelle stazioni della metropolitana e agli angoli delle strade, il blues dei ghetti, ma anche la poesia anticonformista dei Beat e quella profetica di Dylan che amava quanto la musica di Van Morrison, John Coltrane, Miles Davis, Curtis Mayfield, Mary Wells, Dusty Springfield e Dionne Warwick che interpretava Bacharach e David. Quell'universo è risucchiato nel suo essere, nella sua inquietudine, nella sua timidezza, nel suo senso di inferiorità rispetto agli altri al di là di ogni ragionevole motivo, nella sua sensibilità che, sin da subito, parve una stridente condanna.

Difficilmente ci si china davanti alla grandezza di Laura, più facile è ignorarla.

Come spesso succede, a beneficiare delle sue composizioni furono altri: Peter, Paul and Mary e Blood, Sweat & Tears (And When I Die), Fifth Dimension (Wedding Bell Blues, Stoned Soul Picnic, Sweet Blindness, Blowing Away ),Three Dog Night (Eli's Coming), Barbra Streisand (Stoney End) e ancora Carmen McRae, Linda Ronstadt, Thelma Houston e tanti altri.

Tante, come Mitchell, Jones, Vega, Siberry, Snow, Amos, Germano, Apple, le sono poi debitrici.


Laura Nyro, vero cognome Nigro, nasce il 18 ottobre 1947 a New York. Il padre, Louis Nigro, italo-ebreo, è un trombettista jazz e accordatore di pianoforte; la madre, Gilda Mirsky, ebrea russa, è una contabile dell'Associazione Americana di Psicoanalisi, con una rilevante collezione di dischi (da Billie Holiday e Nina Simone a Ravel e Debussy) e idee progressiste. Laura cresce nel Bronx e comincia presto a suonare lo Steinway di famiglia da autodidatta. A 8 anni era già in grado di scrivere canzoni.


Dopo il già maturo esordio, il secondo LP, “Eli and the Thirteenth Confession”, è un concept, potente e lirico, dove, con arrangiamenti superbi e con una libertà di stili e dinamiche avvincente, canta la sua femminilità nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Il successivo “New York Tendaberry”, ode alla sua città natale, rappresenta un ulteriore passo avanti della Nyro, lontano dalle tassonomie del rock: si accompagna al pianoforte con sparuti ma drammatici block chord, disegnando tempi in rubato assolutamente sciolti da vincoli e tempestosi, che ricadono in forme melodiche imprevedibili e in quadri astratti. I testi, introspettivi e visionari, non sono da meno:

Tendopoli di New York

-vera bacca-

Ho già perso gli occhi

Nei cieli del vento dell'est

Qui dove ho pianto

Dove ho provato anch’io

Dove sorgono Dio e il Tendaberry

Dove quaccheri e rivoluzionari

Si sono uniti per la vita

Per anni preziosi

Uniti per la vita

Attraverso lacrime d'argento

Dopo questi due capolavori, disconosciuti tuttavia dal pubblico, Nyro fu indotta a tornare alle più solide strutture del rhythm & blues e della musica soul con “Christmas and the Beads of Sweat” (manco a dirlo, sottostimato e altro fiasco commerciale).

Ma ecco che, l’anno dopo, pubblicò questo “Gonna Take a Miracle”, registrato a Philadelphia coi produttori Kenny Gamble e Leon Huff, appunto assi del Philly Sound, e con le Labelle ai cori (Patti LaBelle, Nona Hendryx e Sarah Dash), a servizio delle esecuzioni, con una partecipazione sentita e volta a stemperare, se non esorcizzare, la sua abitudine al male di vivere, oltre che a mettere da parte la sua proverbiale riluttanza alle collaborazioni. L’album costituisce un omaggio intenso e sincero alla black music, dove spicca il tributo alla Motown, con la sconvolgente e imperfettibile versione di The Bells (scritta, tra gli altri, da Marvin Gaye per i The Originals), ma pure con la dinoccolata You've Really Got a Hold on Me di Smokey Robinson, il tributo al Brill Building, con la vellutata e, secondo me, definitiva versione di Spanish Harlem (di Leiber e Spector) e quello all'epopea dei girl group con la fantasmagorica e spiritata rilettura di It's Gonna Take a Miracle (delle non troppo note Royalettes di Baltimore). Nyro si appropria di tutte queste canzoni, amate nella primissima gioventù, le fa sue, e, seppure in qualche modo si possano presentare come delle antitesi al suo canzoniere, indiscutibilmente ce le restituisce come controparte attiva della sua stessa arte intrecciata, una volta in più, con la sua vita. Detto che l’edizione 2002 è arricchita da 4 pezzi live del 1971, dove, sola al piano, interpreta in modo struggente Carole King con A Natural Woman di e Up On The Roof (ironia della sorte, proprio quest'ultima fu il “suo/non suo” più acclamato successo), non va trascurato che, per la prima volta allora, Laura fu costretta a intraprendere un lungo tour per sostenere le vendite del disco, cosa che frutterà la 46^ piazza su Billboard (e 41^ nella "classifica black”), ma anche la porterà, esasperata, ad annunciare il suo ritiro dalle scene ad appena 24 anni compiuti. Diceva che i suoi unici momenti veramente felici come performer erano stati quelli in cui si esibiva a Manhattan, sulle scale della stazione della metro, con un gruppo doo-wop di amici latino americani, ai tempi della High School of Music & Art.

Ora, perché c'è una femminilità così dissestata qui dentro “Gonna Take a Miracle”, perché un album così sontuoso è anche così crudo?

Già, qui dentro Laura si mette a nudo, illuminando il buio della sua anima.
La Nigro non uscì mai dalla sua anima, un po' come Emily Dickinson non uscì mai dalla sua stanza. Sempre la stessa cella per guardare di fuori: l’inflessibile e austera New York; Monterey che visse come un immenso insuccesso personale, molto più di quanto lo non fosse stato veramente; una relazione interlocutoria con Jackson Browne; i ritiri per rifuggire dai compromessi del music business; la paura del palcoscenico; l’LSD; il matrimonio col carpentiere e veterano David Bianchini e l’abbandono di New York per il villaggio rurale di Gloucester, nel Massachusetts; il mancato rinnovo con la Columbia; il divorzio; la nascita del figlio Gil da una breve relazione con l’indù Harindra Singh; il crescente interesse a sostenere la causa dei Nativi americani, il femminismo e la questione ecologica; la convivenza con la bellissima pittrice Maria Desiderio, che proseguirà per tutta la vita, nella piccola tenuta di campagna a Danbury, nel Connecticut, dove cresceranno insieme Gil (oggi rapper, “Gil-T”); le vacanze in camper.
Non credo di poter trovare Laura nella elegante carrozza trainata dai cavalli che, dall’albergo dove viveva, la portava allo studio di registrazione, quando ancora stava a New York, come riferisce un articolo di Life, dal titolo "The Funky Madonna of New York Soul" (datato 10 gennaio 1970). Ma solo nella sua anima che è la sua arte, dove ha riversato tutta se stessa, assieme alla sua carne umana, senza nascondere nulla del suo genio e delle sue debolezze, delle sue passioni, del suo sguardo triste e combattuto sulla vita.

Ecco, allora, che anche “Gonna Take a Miracle” dice a chiare lettere cos'è il soul. Quel soul carico d'una dannata bellezza, oltremodo pura e oltremodo sporcata con la vita. Laura, d'altronde, il tragico non lo trascende mai, né mai è così insincera da cadere nell'affettazione o nell'estetismo. Per Laura sentire equivale a svanire. Una realtà troppo frammentaria per essere racchiusa nell'anima. Troppo incompiuta e imprecisa. Incircoscrivibile dall’angelo che sprofonda nel buio. Mille abbandoni. Mille cadute rovinose di una sensibilità eccessiva, tradotta in un’arte lussureggiante, libera e sconsolata, offerta al mondo con disarmato candore e dal mondo sconfitta. Un cuore spezzato, con un vuoto che poteva essere colmato solo dall’infinito.

In seguito Nyro, pubblicherà album sporadici e più marginali: “Nested”, orientato verso il folk-rock, quindi “Mother's Spiritual” che evidenzia il suo nuovo impegno sociale (tematiche ambientali, femministe e animaliste, diventa pure vegetariana) e “Walk the Dog and Light the Light”. C’è poi, invece, il materiale uscito postumo, raccolto in "Angel in the Dark" (Rounder Records), che fu inciso tra il 1994 e il 1995 e avrebbe dovuto far parte di due dischi, uno di materiale originale e l’altro di cover. Vi ha lavorato finché la malattia gliel’ha consentito (e forse oltre); le registrazioni sono di grande spessore, da poterlo attestare come suo album migliore dopo il 1971. Qui, ancora una volta, disseziona il suo io ma come davanti a una realtà più grande. Un’opera che andrebbe seriamente riconsiderata. Fece infine, porco mondo, appena in tempo a scegliere la scaletta del doppio antologico “Soul Stoned Picnic: The Best of Laura Nyro”.

Laura e sua madre avevano entrambe 49 anni quando morirono e, tragedia per tragedia, anche Maria Desiderio è morta di carcinoma ovarico nel 1999.



C’è un’altra immagine che mi attanaglia, accanto allo splendore del volto di Maria. È quanto accadde durante le registrazioni di “New York Tendaberry”. Laura aveva invitato Miles Davis a suonare per impreziosire alcuni brani dell’album. Dopo un attento ascolto, in completo silenzio, Miles, con una sorta di sorriso lieve sulle labbra, prima di andarsene, si spiegò: «Non posso suonare su questi pezzi. L’hai già fatto tu!». Squarciato il buio, non c’era nient’altro da aggiungere, nessun colore o sfumatura da far vibrare oltre quei fremiti che rendevano divino il silenzio.

Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici “perché” del mio respiro.
(Alda Merini)

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