Più che gli altri anni, questo qui, si è parlato molto del Record Store Day, questa giornata che, prevista in coincidenza del terzo sabato del mese di aprile, avrebbe lo scopo di celebrare con tutta una serie di eventi, tra cui pure la pubblicazione di alcuni dischi a tiratura limitata oppure no, i negozi di musica indipendenti in giro per il globo. Questo almeno doveva essere lo scopo originario dell'iniziativa che, successivamente, si è estesa e, oltre a divenire sempre più popolare, ha finito con l'investire il mercato discografico e i negozi di musica di tutto il globo.

Quanti dischi comprate ogni anno? Quanti soldi spendete in media ogni anno per l'acquisto di dischi? Io pochi, molto pochi. Anzi. Per la verità, salvo rare eccezioni, non compro praticamente più dischi. Non lo faccio non perché io ritenga che comperare dischi sia sbagliato, né perché io abbia smesso di ascoltare musica o io abbia già "tutto quello che c'era prima". Al contrario, devo dire di ascoltare molta musica nuova. Per lo più ascolto solo le nuove uscite e non lo faccio certo perché io voglia in qualche modo censurare le vecchie pubblicazioni. Lo faccio perché trovo che tra la infinita varietà delle nuove proposte discografiche e musicali alla fine ci sia sempre qualche cosa di interessante. Molte, persino troppe cose interessanti, così che, alla fine, se volessi comperare tutto, questa cosa sarebbe economicamente, ma pure logisticamente impossibile. Se pure volessi scegliere, selezionare, inoltre, mi domando questo che senso avrebbe. Senza considerare che non saprei proprio quali termini, quali criteri adoperare nella scelta.

Allo stesso tempo, devo dire che non mi rammarico affatto per questa cosa. Non mi dispiace, riesco a sopportare facilmente il fatto di non possedere fisicamente la musica che ascolto. Questa è sicuramente una rinuncia, ma, al di là del fatto che credo che staccarsi dagli oggetti e pure fisicamente ritengo sia in assoluto una cosa positiva, una esperienza pure traumatica che tutti noi dovremmo fare (non parlo solo dei vinili oppure dei compact disc, è evidente); al di là di questo, ecco, penso che forse, se ci penso, posso pure considerare come la rivoluzione del digitale, gli .mp3, la musica in streaming abbiano forse dato alla musica una nuova dimensione che forse, dico forse, sia meno superficiale che prima. In ogni caso, se da una parte è vero che oggi grazie a questi mezzi sia più facile accedere alla musica, a quanta più musica possibile e praticamente senza nessun limite; dall'altro è pure vero che i privilegi di questa cosa siano praticamente ugualmente illimitati e sia sul piano economico che della possibilità di scelta, della facilità della trasmissione delle informazioni. Inoltre, chi lo sa, magari in qualche modo questo, attraversata questa prima fase traumatica, potrebbe alla fine in qualche modo spingerci a vivere più profondamente le diverse esperienze sonore. A viverle effettivamente per quello che sono e senza attaccarci troppo a determinati ascolti oppure persino a degli oggetti che divengano alla fine dei veri e propri "feticci".

Del resto, se mi domandate quanti soldi io spenda ogni anno per assistere a dei concerti o a delle performance live, questa volta vi dovrei rispondere molti. Persino troppi. Più di quanti io ne possa effettivamente spendere, se vogliamo. Oddio, forse sto esagerando, del resto, se pure ti puoi nutrire di junk-food e allora spendere pochi soldi per mangiare, devi pur sempre pagare l'affitto. Ma queste sono questioni esistenziali e economiche troppo grandi da affrontare in questa sede, allora lasciamo stare. Comunque lo faccio, vado a questi concerti perché tutte le volte cerco di provare qualche sensazione nuova oltre che una specie di comunione con tutte le altre persone che assistano all'evento. Cosa che del resto devo ammettere che della volte riesca, molte altre volte, la maggior parte no. Solo che è difficile andare contro le proprie resistenze, questo è evidente, è una cosa che possiamo fare solo dopo un lungo processo e lavoro su noi stessi e, alla fine, questa cosa potrebbe comunque benissimo non bastare.

Qual è il vero significato del Record Store Day? Ammesso questa iniziativa ne abbia uno. Cioè, la mia domanda è se è che senso reale abbia questa specie di festività, questa ricorrenza quasi di tipo natalizio e che è pure evidente abbia un suo tornaconto economico, se è vero che, come leggevo su The Economist questa mattina, ve lo linko qui: http://www.economist.com/blogs/prospero/2014/06/vinyl?fsrc=scn/fb/wl/bl/therebirthofrecords, il 2014 sarà probabilmente il primo anno che vedrà un aumento pure sensibile relativamente la vendita di dischi da dieci anni a questa parte. Una specie di rinascita del mercato discografico e che vada di pari passo con quella che da più parti viene definita come la rinascita del vinile. Ma questa rinascita è reale e, soprattutto, a chi giova veramente questa rinascita? Possiamo, da appassionati di musica dobbiamo considerare questa "rinascita" o presunta tale come un aspetto positivo?

Dico la verità: non lo so. Non so rispondere a questa domanda. Dico che, se guardiamo agli artisti cosiddetti "indipendenti" (lasciamo stare quindi, che so, i Coldplay, ma pure gli Arcade Fire), non è che secondo me questi guadagnino troppi soldi vendendo i loro dischi e che, se pure ne dovessero vendere di più, questi non sarebbero mai abbastanza da guadagnarci così tanti soldi. Questo senza considerare che, per quanto riguarda questo aspetto, sicuramente non possa bastare loro una singola iniziativa, in ogni caso lodevole perché momento di incontro e occasione per fare un po' di casino, come il Record Store Day. In pratica penso che comunque economicamente siano i live, grandi o piccoli che siano, le occasioni in cui questi riescano a tirare su un po' di soldi. Ma del resto questa cosa, pure diversamente, vale anche per fenomeni più grandi, dove alla fine fa tutto la pubblicità oltre che la semplice pubblicazione di dischi. Non è un caso, da questo punto di vista, il moltiplicarsi di programmi tipo X-Factor. Nomino solo questo perché, sono sincero e non lo dico per fare il radical-chic e snob, non me ne vengono in mente altri.

Quello che voglio dire è che forse tutto questo ritorno al passato, questa rinascita del vinile, come dicono, possa essere in realtà solo un modo come un altro per colpire al cuore quelli più vecchi e prendere, tanto per cambiare, per i fondelli quelli lì più giovani. Un disco, del resto, è solo un oggetto. Possedere un disco, un oggetto, non significa possedere quello che è inciso all'interno di quei solchi. Possedere un disco non equivale a possedere la musica e puoi possedere la musica pure avendola semplicemente ascoltata camminando per strada oppure la mattina alla radio mentre ti fai la doccia.

Ho conosciuto gente che era gelosa, che è gelosa dei dischi che possiede e pure della musica che ascolta, come se diffondere questa, come se, dove questa divenisse in qualche modo conosciuta pure dagli altri, allora questa, questa musica perdesse in qualche modo il suo significato. Come se la musica che ascoltiamo fosse, dovesse essere un segreto da custodire gelosamente e che gli altri non potessero, non possano mai veramente comprendere. Ma questo atteggiamento, questa idea va esattamente contro quello che sarebbe il significato originario della musica, persino quello suo più primitivo; va contro il concetto di musica come messaggio, come sistema di comunicazioni, dal tamburellare primitivo delle tribù indigene alle luci spaziosoniche di Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Chi lo sa. Forse vi scrivo tutte queste cose perché io per primo sono sempre stato molto attaccato alle cose e a tutti gli oggetti in generale e sono pure sempre stato molto attaccato alla musica. Allo stesso tempo sono sempre stato molto insicuro e molte volte non ho mai avuto altro nella vita cui attaccarmi, come se, ecco, dovessi per forza attaccarmi a qualche cosa. Ma attaccarsi non significa vivere. così ecco che ho collezionato tantissimi dischi nel corso della mia esistenza. Così ecco che, come me, tutti hanno collezionato tantissimi dischi nel corso della propria esistenza e ognuno ha delle storie da raccontare, che sono storie di vita vissuta, ma pure di ascolti solitari; tutti hanno una storia da raccontare relativamente i loro ascolti e i loro dischi, pure intesi come supporto fisico e tutti hanno un loro disco feticcio. Io per esempio possiedo una copia originale di Time of the Last Persecution di Bill Fay.

Io amo Bill Fay. Voglio dire, secondo me Time of the Last Persecution è uno dei più grandi dischi di tutti i tempi e, a parte che questo disco qui lo ascolto ancora oggi veramente tantissime volte, considero Bill Fay un grandissimo artista e uno dei più grandi cantautori della storia della musica inglese. A proposito, comunque possiedo una copia di Time of the Last Persecution, ma comunque ascolto sempre gli .mp3 e sinceramente me ne frego del fatto che, "Bla bla, però ascoltare la musica su vinile è un'altra cosa, la qualità, ecc. ecc." Sì, ve lo dico francamente, me ne frego, non me ne importa niente.

In ogni caso su Bill Fay si raccontano un sacco di storie. Oppure le ho sognate. Tipo che, dopo gli anni settanta, delle persone lo abbiano incontrato e non sapevano chi fosse e lui abbia detto loro, "Beh, io sono, mi chiamo Bill Fay," e allora loro non ci credevano e poi lui si sia messo lì a suonare il piano e abbia fatto praticamente rabbrividire tutti quanti. Però, davvero, forse queste storie qui le ho solo sognate oppure me le sono inventate adesso; oppure sono vere, non lo so, controllate su internet, alla fine basta "googlare" e saprete tutto quello che volete sapere. Però dico che il ritorno sulle scene di Bill Fay nel 2012, quando ha pubblicato il disco di inediti Life Is People, è stata sicuramente una delle cose più inattese, più strane degli ultimi anni. Non me lo aspettavo davvero, che bella sorpresa. Pure considerando che, come se non bastasse, il disco è veramente bello e non è un caso sia stato universalmente considerato come uno dei migliori pubblicati quell'anno.

Allo stesso modo, più o meno, i primi mesi del 2014 è riapparsa sulle scene, dopo 44 (dico quarantaquattro) anni la cantautrice folk-psych Linda Perhacs. Quello che era l'unico LP finora pubblicato dalla cantautrice statunitense, Parallelograms (1970), ha goduto finora non solo della fama di essere uno dei dischi fondamentali del genere, facendo di lei una ispiratrice di numerosi artisti pure della scena contemporanea o recenti come Akron/Family, Devendra Banhart e gli stessi Swans di Michael Gira, Josephine Foster oppure Julia Holter, che peraltro collabora attivamente al suo secondo e ultimo disco. Insomma praticamente facendo di lei una delle massime guide spirituali di quel New Weird American, il movimento musicale in qualche modo inventato, "riconosciuto" e inquadrato dal critico musicale David Keenan sulle pagine di The Wire tipo dieci anni fa. Allo stesso tempo, infatti, Parallelograms è divenuto negli anni un vero e proprio disco di culto. Sotto questo aspetto, quindi, qualche cosa di più che una semplice registrazione, ma una specie di oggetto da divinizzare e celebrare e magari possedere, che so, pure fisicamente, come se andasse tutte le volte scopato e non è escluso che qualcuno, sotto l'effetto di peyote oppure di mescalina, lo abbia pure fatto, non so traendone quanto e quale giovamento, ma ognuno ha le sue manie e questa cosa, ci piaccia o no, la dobbiamo accettare.

Comunque, quando ho letto che adesso avrebbe pubblicato questo nuovo disco, The SOul of All Natural Things, non ci potevo credere. Che cazzo, "Linda chi? Ma è ancora viva? Esiste veramente?" Ebbene sì, Linda Perhacs non solo esiste veramente, ma è viva e vegeta, ha registrato e pubblicato un cazzo di disco, dico, un gran bel disco. Label, neppure troppo a caso, la Asthmatic Kitty di Holland, Michigan fondata da sua maestà Sufjan Stevens, ma poteva essere altrimenti? Come se non bastasse, poi, Linda Perhacs se ne è pure andata in giro per il mondo e, tra le altre cose, è stata pure protagonista dell'ultima edizione del Primavera Sound a Barcellona, segno che questo suo ritorno alla pubblicazione di nuove canzoni e di inediti, come ci auguriamo, potrebbe non essere un caso isolato e segnare stabilmente un suo ritorno sulle scene.

Di Parallelograms, comunque, abbiamo accennato e in ogni caso è già stato scritto tutto, che tipo la cantautrice californiana era una specie di assistente in uno studio medico e che si ritrovò a incidere queste canzoni quasi per caso e io francamente non saprei che altre storie raccontarvi sull'argomento e neppure me le saprei inventare. Che vi devo dire? Se non lo avete ascoltato, fatelo, però poi dopo, ma anche prima, ascoltate anche questo suo disco uscito solo due o tre mesi fa e sicuramente tra le cose più interessanti di questo nuovo anno 2014. Gli aficionados, intanto, potranno notare, già dalle prime battute della title-track che apre il disco ("The Soul of All Natural Things"), come la voce della folksinger americana sia rimasta praticamente immutata nel tempo e come, anzi, abbia forse acquistato una maggiore forza, una maggiore sicurezza e dove, pure contemperata da una produzione ottima e senza sbavature, questa appaia sicuramente più incisiva che in passato. Qui la qualità del supporto mi sa che non c'entri nulla tuttavia, solo che Parallelograms era effettivamente nata come una registrazione quasi amatoriale, mentre questo qui, prodotto da Chris Price e Fernando Perdomo, costituisce un prodotto discografico bello e finito e dove Linda ci mostri non solo tutte le sue capacità vocali, ma pure coadiuvata da Julia Holter e Nite Jewel (aka Ramona Jonzalez) metta in atto questa volta tutta una serie di arrangiamenti che sarebbero sicuramente interessanti e tipici del genere.

Ho letto in giro sul web delle critiche rivolte a una certa eterogeneità di questo disco e al fatto che le tracce (dieci) fossero troppe e non tutte quante all'altezza del mito di Parallelograms. Per quanto mi riguarda, invece, riscontro non solo una certa compattezza e continuità da una traccia all'altra, ma pure un livello di godibilità delle singole tracce prese individualmente complessivamente buono. Intanto un paio di canzoni, tipo "Children" e "Song of the Planets", sono veramente fantastiche e la prima in particolare potrebbe benissimo essere un superclassico del genere, mentre dico che trovare una "coda" così emozionante come quella della seconda, che poi sarebbe la traccia che chiude l'album, ci dobbiamo andare a riprendere tipo "Lucy" di Nick Cave e i Bad Seeds dal disco brasiliano del cantautore australiano, The Good Son. "River of God" è l'altro pezzo forte del disco e forse la canzone più orecchiabile tra tutte, con quel bridge in crescendo dove le note e le voci, gli eco e i riverberi si sovrappongono una su l'altra fino a formare una specie di castello musicale infinito. Altre canzoni hanno invece, a partire dalla title-track, degli arrangiamenti sicuramente più coraggiosi. La title-track a un certo punto diviene quasi roba da Howe Gelb e i suoi compagni mariachi, "Intensity" pure riprende questi temi quasi spagnoleggianti e "Prisms of Glass" "When Things Are True Again" e soprattutto "Immunity" costituiscono invece degli episodi più sperimentali e che i più talebani potrebbero tacciare di lesa maestà al genere. Un'accusa che, ne sono sicuro, oltre che non scalfire questa donna dalla voce e la sensibilità così meravigliosa, appare fuori luogo dove questo genere qui sia sempre stato anche e soprattutto sperimentazione, contaminazione, mai ritornare sui propri passi e incidere e registrare sempre cose nuove e chi se ne frega del "supporto".

(poiché il recensore è ignorante, costui ignorava che il concerto al Primavera Sound fosse stato annullato, NdE)

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