La cacca è la conseguenza, ahimé nemmeno troppo scontata, di una pressoché ineludibile serie di fattori.

Uno di essi è senza dubbio la pietanza di cui ci nutriamo; presumibilmente, introducendo feci nel cavo orale, in uscita troveremo bene o male la sostanza di partenza. Talvolta capita, però, che introducendo un cibo veramente squisito, prelibato e succulento, esso si trasformi dopo tanto tempo ugualmente in merda: è un po' il caso dei nostrani Litfiba.

Questa simpatica, e maleodorante, allegoria serve a mettere subito in chiaro una cosa: non è sempre stata una formazione da "elettromacumbe" o Tori strani. I Litfiba erano molto di più, in principio, soprattutto se consideriamo la loro nazionalità. È stato il tempo, e una lunga digestione commerciale, a trasformarli in pupù.

"Desaparecido" è il primo album ufficiale della formazione, al secolo composta da Antonio Aiazzi (tastiere), dallo scomparso Ringo De Palma (batteria), da Gianni Maroccolo (basso), dal chitarrista Ghigo Renzulli e dal carismatico cantante Piero Pelù. Il sound era tutto sommato anomalo per l'ambiente in cui si trovavano: una sorta di dark wave, un post-punk elettronico (la batteria sembra un MIDI), oscuro, malefico, sulfureo ("La Preda" puzza letteralmente di sangue), malinconico e con forti infarciture tastierose. Chitarre minimali, basso molto presente, voce potente, teatrale e discretamente effettata.

Un disco che in Italia era davvero difficile aspettarsi.

L'apertura è affidata alla bellissima e gotica "Eroi nel Vento", traccia dalla grande atmosfera grazie al sapiente alternarsi di sincopi e distensioni, caratterizzata da uno dei testi più belli e suggestivi del rock nostrano: erano molto curati i Litfiba sotto questo profilo, per loro era un'arma molto affilata. Non è così scontato nel nostro paese, nel quale regna lo stereotipo di canzonetta scialba e, se possibile, melensa e romanticona. C'è spazio per il romanticismo in "Desaparecido", ma dal sapore aspro, perverso e conflittuale: "Lulù e Marlène" per esempio narra del rapporto di amore e odio tra due persone che si vogliono, ma non abbastanza. Due persone che si sprecano, si svuotano e si disprezzano vicendevolmente, con grande passione e senza possibilità di scampo. Romanticismo di ancor più erotica e conflittuale natura è descritto in "Tziganata":

"Eva ballava sul fuoco
profumo di sesso attorno a sé
la notte in cui nacque l'odio"

Due minuti di uggiosa malinconia, sintetica come i suoni di cui è composta, passionale come la linea vocale di un ispiratissimo Pelù. A proposito di ispirazione, chissà se i suoni di "Pioggia di Luce", quella rarefatta atmosfera orientale, quella specie di gamelan elettronico e minimale, intendeva essere una strizzatina d'occhio a Peter Gabriel che propose una soluzione simile qualche tempo prima in "San Jacinto". Con le dovute cautele e proporzioni, naturalmente. Ben più personale invece la celeberrima title-track: un pezzo ricco di notevole sincope, le cui farciture esotiche enfatizzano esponenzialmente il messaggio. Stesso vale anche per la bellissima "Instanbul", la più calzante nel contesto anni '80 dell'intero lotto. La voce femminile che recita (in turco) la preghiera in apertura è chiaro e tangibile segno che questa formazione non componeva lasciando qualcosa al caso, mostrando voglia di essere molto esterofili, quanto più possibile cosmopoliti musicalmente, pur mantenendo una riconoscibile italianità di fondo. Il brano è disteso, ampio, si respira una stupenda aria malinconico grazie al bellissimo lavoro tastieristico e interpretativo. E nel break centrale, sul secondo cambio di tempo in cui Pelù recita

"Instanbul, baluardo sacro per l'incrocio di razze degli uomini brucierà!
Forze oscure in Instanbul..."

l'emozione è ai massimi livelli.

Pur nella sua semplicità e linearità, i Litfiba erano riusciti a intagliare un pezzo di musica enorme come sentimento e come importanza nel panorama rock italiano, che a quel punto aveva trovato un nuovo metro di valutazione. La chiusura di un disco così energico non poteva non essere affidata ad un brano fortemente energico e d'impatto: "Guerra". Inizia con urla che lasciano chiaramente intendere una citazione al nazismo, con un imperativo scandire di numeri in tedesco e l'ordine poi di fare fuoco. Un brano dall'incedere imperativo e costante, implacabile e drammatico, con i pad dei synth a colorare di rassegnazione il paesaggio sconsolato che Pelù descrive con il suo stanco "è guerra! è guerra!", fino al crescendo conclusivo, apogeo della distruzione definitiva.

Questo è un disco importante per tre motivi: primo, può mostrare agli scettici il vero valore di Pelù e soci, mostrando che la pietanza di cui parlavo all'inizio era molto più gustosa e spiegando il perché i nostalgici dei primi Litfiba si disperino così tanto a sentire le fetenzie abominevoli che ci propinano da "Spirito" (incluso) in poi; secondo, può mostrare agli scettici il valore della musica italiana, che non ha sempre prodotto sterco e putridume ma che ogni tanto ha regalato perle di sensazione; terzo, è una pietra miliare del rock italico, che ha aperto la strada ad un nuovo corso e un nuovo approccio di mentalità nella nostra penisola.
Sì, non è un disco rivoluzionario per la storia della musica (new wave a metà anni '80... siamo sempre gli ultimi a capire le cose!), ma è di importanza elevatissima e va ascoltato almeno una volta nella vita.

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