L'emblema della concezione ligabuista della vita e della musica, o dell'arte in generale, è tutta concentrata in questo disco. Woody Allen, qualche tempo fa, con la sua solita aria sorniona e rassicurante, disse "faccio lo stesso film da una vita, ma finchè nessuno se ne accorgerà, andrò avanti". Effettivamente è andato avanti. Esattamente come Ligabue. Il Liga piace a tutti, conservando da 25 anni a questa parte un consenso trasversalmente condiviso e plebiscitariamente confermato. Piace ai giovani perchè appare somigliarli. Piace alla sinistra perchè magnanimo. Piace alle donne perchè "loro lo sanno" e agli uomini perchè "è uno di noi". Se De Andrè inseguiva il gioco retorico della figura e De Gregori quell'esasperato ermetismo, Ligabue è alla ricerca impellente, seppur rapsodica, del basso profilo. Un profilo mai troppo pensoso, vita da mediano, conformismo sibilante e quel pessimismo allentato alla fine di ogni canzone. Il Liga, insomma, è piacevolmente rassicurante. E' un amico fedele, un po' come Battisti, che si rivolge alla generazione fregata e si rifugia nella taumaturgica condizione del "no, perchè no". Il buon Luciano non ha mai fatto mistero di voler essere il nuovo Battisti, quel simbolo universale di umana solidarietà e di aggregazione sincera e paciosa, ma le cose sono un po' diverse. Battisti, da un punto di vista meramente musicale, è stato un rivoluzionario, capace negli edonistici anni '80 di sbeffeggiare l'apparenza, ritirandosi in quel rifugio anonimo, e quindi incantato, che è stato il connubio con Pasquale Panella. Luciano musicalmente è reazionario quanto la Picierno in politica, cioè nulla. Il cantautore di Correggio, criticato sempre troppo semplicisticamente da un'opinione pubblica sempre più conformata a quelle che sembrano tradizioni musicali inattacabili, è dotato di una peculiarità rara e commendevole: la riconoscibilità. Ligabue non è il nuovo Battisti. è il nuovo Mogol. Un Mogol più femminista, più intellettuale, meno rozzo e agreste ma come lui pieno di luoghi comuni; se per Giulio Rapetti valgono "i ciliegi e le libellule in un prato", in Ligabue primeggiano "le cosce e le zanzare".

La sua esistetica, per citare Edmondo Berselli in "Canzoni", "si stende fra il banale e il sublime, fra il concreto e l'astratto, fra il congiunturale e l'epocale, tra il volo e il terra-terra, considerando il sacro e il profano sempre intercambiabili". Il talento di Luciano Ligabue non è pragmatico, istituzionale o accademico, ma più che altro istintuale e di pancia (vedi "Radiofreccia", capolavoro, o "La neve se ne frega"). Il cantautore emiliano è un sereno ornatore della quotidianità, un accomodante fratello maggiore che ti da la scudisciata e che subito dopo ti conforta con una carezza, un acuto osservatore della società capace di coglierne gli aspetti più esposti e capirne gli spostamenti. Il "gran" Liga, come ama chiamarlo il buon Guccini, ha svolto una funzione salvifica e allo stesso tempo deleteria per la generazione dei '90, ossia quella di diventare cantore generazionale per una generazione che aveva bisogna di una colonna sonora esistenziale che la supportasse. Creando, così, una dimensione sempre più acritica attorno alla sua arte e un'idolatria adolescenziale attorno alla sua figura. Certe sue canzoni hanno folgorato e infilzato intere generazioni, portando anche coloro che assicurano di odiare Ligabue ad abbassare il finestrino della macchina e a cantare a squarciagola "Certe notti" o "Leggero". Luciano Ligabue ha accalappiato frammenti di U2 e Springsteen, istantanee di Guccini e quell'insofferenza scorbutica e malmostosa tipica di un certo rock che non si è compiuta con una protesta politica mirata, quanto più con un generico, seppur icastico, "non è tempo per noi".

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