Se apriamo il libro della memoria e andiamo a cercare il file "grunge", in mezzo ai nomi dei tanti eroi che hanno composto la sua storia scorgeremo, di tanto in tanto, qualche gruppo estemporaneo, la cui esistenza è, di solito, strettamente legata ad una precisa urgenza del momento.

Così è stato per i Temple Of The Dog, nati per dare l'ultimo saluto all'amico Andrew Wood e così è stato per questi Mad Season.

La scintilla nacque nel 1994 in una clinica di riabilitazione da droga e alcool di Minneapolis in cui si incontrarono il chitarrista dei Pearl Jam, Mike McCready ed il bassista John Saunders. I due una volta tornati a Seattle si unirono al cantante degli Alice In Chains, Layne Staley (anch'egli in eterna lotta contro i propri demoni) ed al batterista degli Screaming Trees, Barrett Martin.

I quattro iniziarono a jammare e le composizioni vennero fuori attraverso un flusso di idee a volte solo accennate, dove contava più il sentire dei singoli componenti sul momento piuttosto che la forma canzone a tutti i costi. Ascoltando il disco quindi non è una sorpresa ritrovarsi sospesi perennemente in brani dilatati, dove le note si protraggono come i pensieri di chi le suona.

L'ascolto non è facile, a volte è anche faticoso, ed il rendersi conto di stare assistendo ad una esorcizzazione di gruppo serve a dare il giusto peso alle lunghe divagazioni e ripetizioni che spesso incontrerete nel viaggio. Stavolta Layne Staley, per la prima e ultima occasione, si prende carico di tutte le liriche, che sono in linea con la sua poetica. La base ritmica lo segue e si ritaglia una spazio personale nella strumentale, liquida ed infinita "November Hotel" e nella seguente, finale "All Alone", quasi priva di parole. Mentre la chitarra di McCready si prende il suo tempo ritagliandosi fraseggi e assoli con parsimonia.

Il gioco non sempre riesce ad emozionare, almeno il sottoscritto, ma questo non priva l'album di momenti importanti dove la straziante intimità di Staley viene a galla, riuscendo a modellare i brani con il suo stile e la sua angoscia. Su tutta la scaletta si stagliano l'iniziale, di grigio pulsante "Wake Up" e "Long Gone Day", apice di un paesaggio dipinto di religiosa malinconia grazie alla voce dell'amico Mark Lanegan, ad un sax estraneo, inaspettato, ma al contempo necessario ed alle parole di Staley, che ho personalmente stampato nella mia memoria interna: "Rivedo tutti voi di tanto in tanto, non è strano? Quanto siamo adesso distanti...Sono il solo che si ricorda di quell'estate? Oh ricordo...Ogni giorno, ogni volta un posto al sicuro, la musica che suonavamo, il vento ha portato via tutto questo...".

Alla fine il disco conduce l'ascoltatore ben disposto a camminare lungo sentieri ricchi di psichedelia, di deserti acidi, di blues lentissimi come la guarigione dei loro protagonisti ("Artificial Red"). Strade che ti lasciano a volte dentro sabbie mobili pronte ad ingoiarti come il ritmo da loro dettato (vedi "Lifeless Dead"), in un incedere da cui sembra non si possa uscire vivi. Questa purtroppo, come molti di voi sapranno, è stata la realtà dei fatti per Staley e Saunders, vittime del solito vecchio copione. Qui li ricorderemo per sempre in uno dei loro ultimi tentativi di sopravvivere.

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