Dopo tre anni, personalmente molto attesi in particolare per l’annuncio di un nuovo tour, torna il vero gentleman del blues europeo con un album solista.

Erano anche tanti anni che non uscivo di casa con l’intento di andare a comprare il nuovo album di un artista blasonato, sensazione strana. Sono forse diventato ricco? O feticista per un oggetto magnifico quale può essere un cd fresco di stampa? Oppure rimpiango i vecchi meccanismi del mercato musicale e mi rivolgo a questo buon padre di tutti noi chitarristi per ricordarmeli?

Come nel precedente “Tracker”, Mark propone una serie di brani di lungo respiro, quasi tutti di 5 o 6 minuti. Non aspettiamoci, però, sorprese o clamori. Si tratta dei soliti brani con strutture ben definite e ampie code strumentali. Infatti, pur detenendo il potere conferitogli da milioni di onorificenze, pur essendo entrato nella Hall of Fame, il cosiddetto “uomo pacifico del rock” rimane fedele a se stesso e non stravolge il suo operato. Il risultato, quindi, non delude. Certo, a metà album si rischia qualche sbadiglio. Tuttavia Mark è un maestro anche in questo, dal momento che sa perfettamente come ripristinare immediatamente il coinvolgimento. “Good on You Son”, sesta traccia nonché primo singolo dell’album, è infatti un brano che irrompe deciso dopo tre tentativi di lenti che definirei solo “cute”: “Nobody’s Child” è il tipico lento di Knopfler, squisito ma personalmente preferisco il resto. “Just a Boy Away from Home” un blues altrettanto tipico e apprezzabile nel suo tentativo di inserire i fiati che tanto saranno protagonisti successivamente. Tuttavia la coda strumentale, citazione del musical “You’ll Never Walk Alone, è solo un piacevole sottofondo con cui accoglierei qualche amico a cena, senza però dilungarmi ulteriormente come, invece, il gentleman sembra voler fare. “When You Leave” porta avanti lo stesso discorso, trasformando gli amici nella tipa che ti vorresti fare in attesa di maggiore impegno. Irrompe, infatti, la tipica tromba in sordina degna dei migliori Fresu e Bosso con piano in sottofondo. Sia chiaro, l’avesse scritta chiunque altro sarebbe stata una canzone meravigliosa. Lo è di sicuro anche in questo caso, ma sa di già sentito e risentito.

Tornando quindi a “Good on You Son” si respira maggiore freschezza. Brano tanto roots quanto pop, ma carico del groove che a me piace quando penso a Mark. Riuscito utilizzo delle tastiere nello strumentale che fa da coda ai ritornelli. Timido e forse un po’ impacciato tentativo di imitare “the rhythm of the Cockney rebel” inserito nella perfetta metà tramite quattro percussioni etniche che vengono poi mantenute durante il solo di sax. Brano strutturalmente impeccabile. Meno male, pensando a come era cominciato bene l’album. I primi due brani, infatti, “Trapper Man” e “Back on the Dance Floor” contengono lo stesso groove da road songs che tanto fanno sognare ad occhi aperti e tanto le puoi mettere ovunque. E’ questo che i fan vogliono sentire, una canzone dalle tinte bucoliche, pastorizia, trappole per bestie che rovinano il raccolto, caccia, una struttura ritmica decisa e un’altra altrettanto dinamica con tematica più prettamente meta musicale, impreziosita dalla voce di Imelda May. Due brani ottimisti che ci hanno accolto con un abbraccio.

La seconda metà ci propone subito quattro pezzi magnifici. “My Bacon Roll” è la tipica lenta ballata malinconica di Knopfler, però carica di lirismo e vere tinte roots. La presenza sovrastante dei riff della Les Paul è inoltre il modo migliore per rassicurare noi fan su cosa andremo a sentire. “Nobody Does That” è un funky che inizia con una sorprendente batteria elettronica e con il sintetizzatore della Tonto Expanding Head Band che tanto ha fatto la fortuna di Stevie Wonder. La classica strumentazione quindi si unisce, ma il brano rimane carico di effettistica sapientemente utilizzata. Come dire, Mark, con affetto eh, ma forse con una trentina di anni di ritardo ci siamo arrivati. Funky/blues in tonalità minore, quindi, con nuovo splendido solo di sax. “Drovers’ Road”, torniamo alle tematiche campestri e alla vita dei mandriani. Di nuovo vale il discorso del lento knopfleriano che a noi piace tanto. Vero groove, cori magistrali, potenza della scrittura musicale che solo lui ci sa dare. Qui però si esula leggermente. Per una volta non ci sembra di volare negli States; infatti il violino e il low whistle ci tengono, ben saldi in terra britannica. L’impressione che ne risulta è una meraviglia. “One Song at a Time” è un brano più pop, però molto struggente in quanto è una sorta di manifesto letterario di Mark. La difficoltà a rientrare a pieno regime nel mercato discografico contemporaneo, a leggere il modo in cui si fruisce della musica negli ultimi anni. E certo, sono difficoltà che uno come te si può permettere, diciamo. Tuttavia la fedeltà a se stesso e ai suoi ideali di vita non è mai venuta meno e lo sappiamo. Quindi non c’è spazio per accuse di ipocrisia, “I’ll be out of this place, down the road wherever” e noi, qualche volta, ti accompagneremo volentieri, senza clamori, senza esagerazioni. Come quest’album, che propone la squisita “Floating Away”, poi due brani per me non eccezionali, ma infine ci consegna la breve “Matchstick Man”, una sorta di messaggio di gratitudine per quanto avuto, un ricordo degli inizi difficili di carriera, una celebrazione del suo presente luminoso in Geordieland. Insomma, un uomo che non gioca a fare l’artista maledetto, ma che ci consegna un album fedele a se stesso. Qualche sbadiglio, ripeto, ma anche qualche esperimento riuscitissimo. Niente esagerazioni, tuttavia. Solo bella musica.

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