Tra le varie recensioni che ho letto in giro di questo ultimo disco di Mark Lanegan, che qui si presenta come 'Mark Lanegan Band', ce n'era una che suggeriva che tra quelli che definiva come reduci del 'grunge', Lanegan sia quello che è invecchiato meglio e sostanzialmente l'unico che abbia apparentemente ancora qualche cosa da dire.

Francamente questa considerazione ritengo sia una mezza verità.

A parte il fatto che la definizione di 'grunge', un genere che fu più una specie di artifizio di tipo commerciale e diciamo in qualche maniera strumentale al mercato discografico in un determinato momento storico, è sempre qualche cosa di indefinito e comprensiva di realtà tra di loro molto diverse musicalmente e anche culturalmente.

A parte questo, ecco, considerando realtà come Pearl Jam e Soundgarden assolutamente prescindibili (chi li ascolta se non quelli che furono i loro fan storici?) e i Nirvana come qualche cosa che si è esaurito per forza con il decesso di Kurt Cobain e senza che secondo me questi avesse sviluppato e mostrato appieno le sue grandi qualità come sensibile e ispirato scrittore di canzoni; ho sempre considerato Mark Lanegan uno dei miei artisti preferiti e gli Screaming Trees sono ancora oggi una delle mie band preferite, una di quelle che considero fondamentali nella mia formazione come ascoltatore.

A parte questo mi sono sempre piaciuti i Mudhoney e sono loro secondo me quelli che tra tutti gli esponenti del cosiddetto 'grunge' sono invecchiati meglio tra tutti e sono rimasti fedeli alla loro natura originale e hanno continuato a proporre ottima e potente musica.

Considero invece da tempo artisticamente poco ispirati Greg Dulli (nell'ultimo disco degli Afghan Whigs è evidente che sia stanco e privo di energie, la sua voce è praticamente irriconoscibile) e Mark Lanegan. Un artista che dopo aver toccato il suo momento forse più alto con 'Bubblegum' appare persino annoiato e semplicemente trascinarsi da un progetto all'altro con più o meno scarso interesse.

I Gutter Twins furono un'invenzione poco fortunata di Greg Dulli, che volle Mark Lanegan anche come guest con i Twilight Singers; francamente poco rilevante la sua collaborazione con i Queens of the Stone Age; alterne furono invece le vicende e le 'fortune' di Lanegan nei suoi duetti con Isobel Campbell; degne di nota le sue collaborazioni con i Soulsavers; bello il disco ('Black Pudding') registrato assieme a Duke Garwood nel 2013 e uscito su Heavenly Recordings.

I suoi ultimi tre dischi solisti ('Blues Funeral', 'Imitations', 'Phantom Radio') in serie non hanno fatto altro che deludere i suoi fan storici.

In verità nessuno di questi tre dischi si può definire esattamente 'brutto', ma sicuramente nessuno di questi lascia oppure ha lasciato il segno. Tanto è vero che in generale ci si continua a riferire a Mark Lanegan come ad un artista che appartiene al passato. Eppure come abbiamo visto è un artista ancora oggi e negli ultimi anni prolifico come pochi a tutti i livelli, quindi...

Rieccolo adesso che ci riprova con 'Gargoyle', che è uscito lo scorso 28 aprile sempre via Heavenly Recordings, e che vede la partecipazione come guest stars di un mucchio di 'amici' che peraltro ho per lo più già nominato: Greg Dulli, Duke Garwoos, Josh Homme,e Jack Irons tra gli altri.

Le atmosfere del disco sono come da tradizione abbastanza oscure, quasi crepuscolari, ma quello che colpisce è il fatto che in ogni caso e praticamente nella maggioranza delle canzoni, il suono sia pervaso da un certo sound drone che oltre che contribuire ad accrescere questo senso di inquietudine e questo evocare il crepuscolo, sembra quasi una scelta artistica vera e propria di Lanegan, come se egli in qualche maniera volesse mascherarsi oppure ergere una specie di sistema di difesa che si può considerare forse come una scelta introspettica alla stessa maniera delle soluzioni sonore ritrovate da Nick Cave nel suo ultimo disco 'Skeleton Tree'.

Del resto qualche somiglianza con Nick Cave e il suo ultimo lavoro sono rintracciabili in alcune delle canzoni del disco, come ad esempio nel gospel 'Goodbye To Beauty' (oppure 'Sister'), una delle canzoni migliori del disco, un recital gospel fondato interamente sulla voce di Lanegan e dove le chitarre elettriche imperversano come fantasmi distorti che lampeggiano come flash nelloscurità.

Ovviamente la voce di Lanegan, un timbro che non sembra perdere colpi rispetto al passato ('Nocturne') costituisce il cuore dell'intero lavoro che secondo me offre alcuni spunti e propone alcune soluzioni interessanti. A partire dal thrilling ossessivo e i ritmi percussivi della traccia d'apertura 'Death's Head Tattoo' agli intermezzi lisergici e evocativi, quasi eterei, di 'Blue Blue Sea'; ballate dalle atmosfere allo stesso tempo sognanti e in qualche maniera rurali come 'First Day Of Winter', dominata dal suono dell'organo elettrico; il rock-blues dronico e psych di 'Beehive' (con qualche rimando al sound avvolgente dei vecchi Screaming Trees) e 'Old Swan'.

Un paio di tracce sono invece assolutamente passabili, come il rock-blues di 'Emperor', con le chitarre tipicamente QOTSA, oppure l'inconcludente 'Drunk On Destruction', costruita su dei presupposti quasi industrial.

Ma non è tanto questo il problema del disco, quanto invece la mancanza di quelli che si possono considerare veri e propri picchi emotivi e quelle che possono essere profonde suggestioni, peraltro pure evocate dalle atmosfere del disco.

Resta quella che appare come una incolpevole stanchezza di un artista che ha dato tanto, forse secondo il suo punto di vista persino troppo e al punto da non volersi sbilanciare più di quanto dovuto; oltre che un disco la cui 'colpa' è quella di non essere bello, ma neppure tanto brutto da poter lasciare il segno in questo senso e magari invitare il nostro cantautore preferito a una specie di riscatto di cui immagino non gli importi praticamente nulla.

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