Leggendario. Inarrivabile. Fondamentale. Assoluto. Imprescindibile. La corona dorata e scarlatta posta sul capo della mostruosa cinematografia di Martin Scorsese.

Con The Departed pensavo che quel genio raffinato e irraggiungibile di Scorsese avesse superato ogni limite.

Ho letto buone cose sui film di questa stagione, davvero. Molti ragazzi hanno centrato la questione. Cioè, l'hanno proprio bersagliata con un Kalashnikov. Hanno compreso la inquietante grandezza di Martin Scorsese, il suo essere irrimediabilmente se stesso, fra mitologia e realtà, sordidi confini esoterici e puro e instancabile stacanovismo cinematografico. Erano trascorsi troppi anni fra Toro Scatenato e Quei Bravi Ragazzi, lo stesso accadde tra quest'ultimo e la sontuosa folgorazione vendicativa di The Departed. Troppo tempo. Circa dodici anni e un sacco pieno zeppo di capolavori sfiorati... e ci si aspettava qualcosa che, puntualmente, veniva disatteso. Perché ogni volta Scorsese realizzava un lavoro differente dal precedente. "Il vero Scorsese è Taxi Driver". Anzi, "Non esiste Scorsese più genuino e autentico di Quei Bravi Ragazzi". E ancora: "The Departed è il Martin Scorsese che aspettavamo da sempre, è un fottuto gangster-movie!", puntualmente seguito da "Ma perché, che ci avete da ridire su Casino?"

Con sincerità, di un paio di ragazzi ho letto le recensioni sul 26esimo di Martin Scorsese e sono entrambe eccezionalmente impeccabili. Più di alcune riviste del settore, specie nostrane, più dei siti web blasonati, della pantomima delle pagine ufficiali e delle personalissime rubriche degli youtuber da 650 likes e migliaia di visualizzazioni a giro per non dire niente. Per non dire niente.

Perché qualcosa è stato trascurato. Lasciato in disparte a causa del rumore assordante scatenato dalla mondanità dell'evento, dal baccanale redditizio e sfavillante della celebrazione e dalla spumeggiante "vita di società" che un simile, grandioso accadimento è capace di scaturire.

In realtà ci troviamo di fronte a qualcosa di unico. Forse, irripetibile.

Abbandoniamo per un momento gli aspetti principali dell'Intrattenimento. Sorvoliamo sulla gelida logica aritmetica del business. Tralasciamo, per un istante, le dinamiche viscose e brutali dell'industria dello spettacolo. L'ipnosi collettiva. Le mode. L'ascesa e la caduta degli angeli maledetti della Nuova Hollywood. Il film che molti stanno disperatamente cercando su Netflix non è soltanto una pellicola cinematografica. The Irishman è il nostro tempo.

Robert De Niro. Al Pacino. Uno personifica il gelido e incrinato Frank Sheeran, l'altro scolpisce un viscerale Jimmy Hoffa. Sono i più grandi attori del nostro tempo. Sbalorditivi. Memorabili. Te ne accorgi, ancora una volta, perché hai guardato tutta la prima parte del film con la bocca spalancata. Joe Pesci. Capisci che non c'è storia. Russell Bufalino è lui. Lo è sempre stato.

Avremmo potuto controbattere al folle Jimmy Hoffa che blaterava sulla sanguinosa didattica omicida del crimine organizzato e sulle nefaste conseguenze sociali che le generazioni del secondo dopoguerra avrebbero sperimentato di lì a poco ai margini del terzo millennio e dello stesso sogno americano? No. La risposta è no. Martin Scorsese è americano. E come ogni americano che ce l'ha fatta, sa che la frontiera selvaggia che separa il paradiso dall'inferno è sottile come un luccicante rivolo di sangue.

Crea la sua opera più toccante, Scorsese, la più complessa, certo, anche la più estrema, ma soprattutto la più malinconica e disperata. Perché quegli ultimi minuti, così soffici e placidi, tratteggiano un epilogo mesto e doloroso, senza speranza. Quello che avrebbe potuto essere e non è stato.

La condanna giunge proprio per mano sua, del regista che più di ogni altro ha saputo smuovere le interiora viscide e incasinate degli spettatori, l'artista che non si è mai fatto scrupolo alcuno pur di sbattere in faccia al pubblico fremente la selvaggia violenza dei suoi magnifici e spietati personaggi, la violenza animalesca di una società rapace e insaziabile, che è cifra identificativa di un'epoca e di un mondo perfettamente incastonati nella genetica dell'orrore.

La nuova fatica di Scorsese è una storia basata sull'opportunismo. Frank Sheeran e Jimmy Hoffa sono compagni di vita e di lavoro assieme compongono lo sgretolato mosaico di quella che nel corso delle tre ore e mezza va delineandosi come una tempestosa e leale fratellanza tra boss e guardaspalle, una dicotomia che dipana il suo filo illogico anche nella vita ordinaria, con i due che cercano di completarsi fuori dal mondo del lavoro, lontano dal business truculento.

Prima di esaminare The Irishman è indispensabile passare al vaglio lo scarto temporale che divide l'epoca centrale della narrazione, gli anni Settanta (il tempo in cui Hoffa è scomparso), dall'anno di uscita del film, che è quello in cui viviamo, gli anni Dieci del nuovo millennio. Quasi mezzo secolo. Più Di cinquant'anni di contemporaneità, il cui avanzamento potremmo accostarlo al flusso granuloso che sibila fra le due parti di una clessidra. Il tempo scandito dalla gloria e dal sangue, l'epica silenziosa e temporalesca di Frank Sheeran.

Cos'era il mondo all'epoca? Cos'è l'America, oggi? La testa della sfinge in decomposizione. La parte intatta e visibile in cima a un corpo in preda al disfacimento. Nonostante il baluginoso luccichio delle catene di luci e la magnificenza delle faraoniche strutture. A onta del fiume di denaro che serpeggia rimbalzando sulle putride mura dei giganteschi labirinti dell'Impero.

Insegnano a uccidere.

Martin Scorsese lo sa. Lo ha sempre saputo.

Le autorità escono a pezzi da questo film, proprio come ne vennero fuori da Mean Streets e da Casino, da Quei Bravi Ragazzi e da Gangs Of New York. L'autorità sentita come nemica. Lo percepiamo dalla calcolata spregiudicatezza di Frank Sheeran, calmo e devastante protagonista di questa maestosa e sanguinaria novella americana: eroe di guerra e sicario, lavoratore granitico e disonesto, assistente, factotum, picchiatore, soldato di mafia, uomo in carriera.

L'autorità è il medesimo bersaglio degli uomini d'onore, quelli a cui Martin Scorsese affida da sempre l'ingrato compito di sostenere il peso del peccato originale nel mondo di sotto. Perché nella pozzanghera della Storia l'autorità Jimmy Hoffa è annegata. Nel film di Scorsese è stato colpito con una palla alla nuca. Il sangue ha dipinto la parete. E nessuna tinta o vernice potrà mai celare quella macchia rossastra.

Avere il coraggio di mostrare la propria versione dei fatti dovrebbe spingerci a riflettere. È stato fatto anche in Once Upon a Time... in Hollywood, di Quentin Tarantino, ma con uno spirito e un risultato completamente diversi.

Scorsese non gioca a fare Dio.

Non esiste nessun dio nella postmodernità. È un mondo fittizio e inconsistente. Il regno dell'apparenza.

The Irishman è leggendario. Il capolavoro assoluto del piccoletto di Little Italy, l'eterno cattivo del Cinema. Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci sono tornati in vetta dopo anni insipidi, trascorsi sugli allori. Non è difficile prevedere la carneficina di statuette. Ma il vero genio è lui, Marty.

L'ennesima lezione di antropologia applicata al crimine, perché la storia degli uomini non è altro che una implacabile lotta per la sopravvivenza, una ferale corsa al massacro per regnare su un cumulo di cadaveri.

Frank Sheeran era un assassino per diritto di nascita, e Robert De Niro, l'unico artista in grado di poterlo raffigurare. Al di là delle tecniche adoperate e delle discussioni sugli effetti del ringiovanimento digitale, si può affermare di trovarsi di fronte a qualcosa di storico. Di monumentale. Un momento cruciale del Novecento, quando un semplice manovale del crimine organizzato è giunto sino a imporre un segno sul robusto dorso degli eventi. Gli omicidi come li vediamo in The Irishman non li abbiamo mai visti né li rivedremo in nessun altro film. Due colpi alla testa, che sembrano uno sparo solo. Chiuso. Senza preludi, crescendo musicali e ralenti o cose simili.

Si conclude così un'era. Fiamme, spari, sangue... e poi il silenzio.

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Altre recensioni

Di  joe strummer

 Un film che non va visto tanto per quello che è, ma per quello che rappresenta. Un testamento.

 È un gran funerale collettivo, e chi resiste un po’ di più lo fa pregando.


Di  JOHNDOE

 HA UN CORPO DA VECCHIO.

 La misura, quando manca il senso della misura, quando manca il SENSO!


Di  mauro60

 Lungo. Molto. Troppo.

 Solo il rispetto per questo Grande Regista mi fa consigliare agli appassionati cinefili di vederlo, comunque di vederlo.