Ah, passeggiare in solitaria per la città, nelle tarde ore notturne di fine luglio! Le vie e le piazze semi-deserte, il venticello fresco che saltuariamente si leva dandoci un pò di sollievo, i rumori ovattati delle creature (naturali e non) che popolano il ventre urbano. Tutto è diverso rispetto al dispotismo solare diurno, anche noi lo siamo. Nuove sensazioni si fanno largo nel nostro spirito e vediamo le cose sotto una luce nuova: quella della luna.

Quale miglior Virgilio, allora, della voce di Hope Sandoval?

Austeri artigiani di un argenteo e pacato psych-pop-rock soffuso e brumoso, i Mazzy Star riescono a preparare sofisticate pozioni in cui folk, minimalismo strumentale e acide distorsioni chitarristiche, diventano un fluido magico dalla irresistibile malìa grazie allo strabiliante canto della Sandoval. Sorta di fata Morgana dalla voce spettrale e sensuale insieme, ha il potere di illuderci che le melodie e le litanie non provengano da un punto ben preciso, ma piuttosto sembrino essere come il riflesso dei raggi lunari che rimbalzino ora su una parete, ora su un lampione, ora su una falena; raggiungendoci infine con una modulazione “trascendental-terrena”.

Il disco in questione, per chi scrive il loro capolavoro, è un viaggio al termine della notte in cui i nostri riescono a trovare un miracoloso equilibrio tra easy-listening di alta classe e puntate mirate e precise in lisergiche oasi psichedeliche.

Il blues di “Wasted” o lo shoegaze levigato ed attenuato di “She’s My Baby” e, soprattutto, di “Bells Ring”, fanno da contraltare, per esempio, a splendide e languide ballate colme di una malinconia ancestrale. “Fade Into You”, forse la più radiofonica, ci apre il cuore con una dolce nostalgia per il tempo che scorre inesorabile e “Five String Serenade” (cover dei Love) è una serenata da camera arrangiata per tamburello, chitarra acustica e violino che paiono essere turiboli che spargono la voce d’incenso di Hope.

Into Dust” è un dolce addio tra frinire di cicale e rombi lontani di automobili, mentre con “Blue Light” pare di vedere materializzarsi i fantasmi di due antichi amanti che danzano un lento in una piazzetta fuori mano.

Con l’eclissi lunare di “Mary of Silence”, siamo catapultati in un sabba oscuro e torbido condotto da un raga d’organo; riusciamo però a scorgere la Sandoval cantare in trance, con occhi vacui e pupille dilatate che inghiottono ogni sprazzo di luce circostante. La migliore canzone che i Doors non scrissero mai.

La title-track che chiude il disco è un mantra dissonante a-là Velvet Underground (quasi una sorellina minore e più “educata”di “Sister Ray”), in cui Hope riesce a compiere il miracolo di fondere le funeree litanie di Nico con le amorali declamazioni di Reed.

Ora basta sproloquiare però: l’alba sta per manifestarsi ed io voglio cadere in un sonno profondo che ristori il mio essere, così come “So Tonight That I Might See” ha ristorato il mio spirito.

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