Di quale materia sono fatti i ricordi? Sono immagini? Sono sensazioni? Sono suoni? Sono un coacervo di queste tre cose? Me lo chiedo spesso, soprattutto quando sento questo disco.
Seppur intangibili i ricordi hanno un peso, un peso quasi fisico. Possono essere leggeri come piume e pesanti come macigni, fragili come il cristallo e duri come la pietra. Ma la cosa strana è che in modi sempre differenti e nuovi, e quando meno ce lo aspettiamo, un agente esterno li fa riaffiorare dal subconscio, spesso casualmente. E allora da elementi immateriali diventano parte fisica di ognuno. Fanno battere il cuore, accelerano l’adrenalina, provocano brividi lungo la schiena, abbattendo gli steccati culturali fra la mente il corpo, creando una comunione vera e profonda.

E proprio di ricordi e di questa comunione inscindibile è fatto Deserter’s Songs.
Esiste materialmente nella mia collezione da pochi giorni, ma le sue melodie dal potere lenitivo mi accompagnano da sei anni. Riportano a galla tramonti ad Arezzo, pianti notturni veneziani, l’odore della pelle di una donna, una mattina di luglio dopo la street parade, un’alba in spiaggia sotto il Monte Conero e tanti altri.
Tali ricordi sono figli diretti della musica che li accompagna, una musica discesa direttamente da mondi altri e migliori del nostro. Un perfetto equilibrio di melodie struggenti (l’iniziale Holes, pervasa da un’aria di pianto imminente, grazie ai suoi arrangiamenti di archi, e conclusa da un sax maestoso), canti celestiali (anche il più ateo di voi penserà a qualche liturgia cristiana sentendo il theremin e le voci angeliche di Endlessly), perentori intermezzi fatti di grammofoni gracchianti (I Collect Coins) e dissonanze pianistiche (The Happy End). Senza contare brani quasi da dancefloor (Delta Sun Bottleneck Stomp) e perle di pop a tutto tondo quali Opus 40 e Goddess on a Hiway.
Su tutto si erge la voce gnomesca di Jonathan Donahue, vero elemento straniante della musica dei Mercury Rev, la quale riesce a rendere anche “i buchi scavati da piccole talpe” la cosa più importante al mondo.

In ultima analisi un disco dalle innate capacità catartiche (almeno per il sottoscritto), assolutamente privo di tempo e avulso dal suo tempo, che si erge come una vetta irraggiungibile nel panorama pop di metà anni novanta (e nella stessa discografia dei nostri, sia precedente che successiva).
A mio avviso il “Forever Changes” del decennio trascorso.

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