Ovvero: l’educazione sentimentale di Flo.

Quando avevo diciassette anni ero strana (ma questo lo sapete già) e non avevo vita sociale: praticamente vivevo in Norvegia e contemporaneamente vivevo su internet. Un bene? Un male? Boh. Però su internet ho conosciuto persone a cui ho voluto (e voglio, a distanza di più di quindici anni) veramente bene.

Queste persone, oltre a sorbirsi i miei piagnistei e a farmi conoscere Debaser, hanno anche contribuito alla mia formazione musicale. Io, a quei tempi, ero in piena metamorfosi, dopo un’adolescenza di rap italiano (ohibò), mi stavo un po’ riavvicinando alle radici paterne, con un gusto più spiccato per il lagnafolk e le chitarrine acustiche e tristanzuole. Un colpo di fulmine già era stato con Jeff Buckley, che avevo scaricato in lungo e in largo (rarità comprese) dopo aver ascoltato Grace e di cui conoscevo vita, morte (soprattutto) e miracoli, in piena fase monomaniacale e depressiva.

E insomma, un bel giorno il buon vecchio Carlo Cimmino (a cui dedico questa pagina), inquadrando la mia tristezza, mi consigliò and The Gospel of Progress di Micah (oltre ad altre cose, come Sufjan Stevens), con quell’apertura delicata che è “Close Your Eyes”, la frustrazione di “Patience”, la rassegnazione di “You Lost Sight on Me”, l’intermezzo “Caught in Between” e l'abisso finale in “The Day Texas Sank to the Bottom of the Sea”, che affonda anche te.

Anche a lui (al disco, dico), voglio ancora bene dopo più di quindici anni, e una full immersion nella malinconia me la faccio ancora volentieri. Però “The Day Texas Sank” devo saltarla, se non voglio piangere.

Micah P. Hinson dice che tutte le recensioni del suo disco nuovo dicono ancora che lui è triste, ma dice anche di essersi rotto un po’ il cazzo di essere visto come il cantautore con la voce bella e il mal di vivere. Insomma, forse così triste non lo è più. O forse ci mente, come suggerisce il titolo del disco?

Qualche idea ce la può dare l’apertura tutto sommato allegra con Ignore the Days, il country di Walking on Eggshells, e le cover un po’ pacchiane da barbecue texano.

E invece alcune cose restano: la voce profonda che riconosci a occhi chiusi (e le sembianze più distaccate dalla voce della faccia della Terra), la suggestione del corpo di una donna in copertina, le chitarre, il piano, e qualche tocco di disperazione, come in What Does It Matter Now? (che forse poteva anche stare in “And The Gospel of Progress”) o You and Me.

I temi in generale non sono sempre allegri: si parla spesso di rimpianti e rimorsi, della sensazione (condivisa) di aver sprecato la giovinezza, di aborti, dell’oppressione di un’educazione troppo stringente. Insomma, Micah è uno che ha sofferto e di certo non se lo può dimenticare.

Io non so se sono meno triste e pessimista di quando avevo diciassette anni. Forse è solo una tristezza diversa, meno estrema, più sommessa. Meno a ondate, mi tiene bordone. O forse sarà che ci ho fatto l’abitudine. Sarà come l’acufene?

Comunque, a me il disco nuovo piace, tutto sommato. Non è di certo il suo capolavoro, non me lo porterei sull’isola deserta, e qualche traccia la salterei anche. Ma sicuramente Micah non è cambiato del tutto. E probabilmente neanche io.

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