Pubblicato (parecchio) postumo nel 1966-67, "Il maestro e Margherita" è l'approdo finale di Michail Afanas'evic Bulgakov, dopo una vita a dibattersi tra (ottimo) teatro, romanzi e racconti satirici vari. Quello che insomma chiamano il capolavoro.

I rapporti tra Bulgakov e il regime sovietico non furono mai una gran piacevolezza, così come non lo fu il suo personale con l'epoca e il luogo in cui viveva - non di certo l'humus ideale per la libertà espressiva di cui sentiva di non poter fare a meno. Tuttavia, vuoi per un iniziale apprezzamento di "La guardia bianca" da parte di Josif Stalin, che rimase poi piuttosto "distratto" nei suoi confronti, vuoi perché l'opposizione di Bulgakov al regime fu più individualista - e in parte rassegnata - che altro (nonostante le taglientissime vendette sparpagliate e mimetizzate nella sua poetica), in qualche modo riuscì ad arrivare a scriverlo, il benedetto capolavoro (che come ogni sua altra opera, non ebbe comunque vita facile editorialmente parlando; si dovettero aspettare quasi trent'anni dalla sua morte per vederlo pubblicato). E per fortuna che l'ha fatto, direi.
Perché un capolavoro lo è veramente: una polifonia letteraria, una piccola mitologia moderna che riesce a filtrare con l'ironia la bellezza dei classici sciacquandone via tutta la pesantezza. Ed è anche un romanzo del tutto particolare, che intreccia satira, simbolismo, filosofia e mille altre cose in una storia a tratti confondente (non però confusa), ma leggibilissima.

In breve: il diavolo arriva a Mosca, così. Ma il sordo e dogmatico razionalismo di due illustri esponenti dell'élite culturale sovietica non permette loro di riconoscerlo, nonostante egli affermi in tutta lucidità di essere stato a colazione con Kant e di aver fatto allegramente visita a Ponzio Pilato non troppo tempo prima. La conseguenza di tanta imbecillità è un brutto incidente con tanto di testa mozzata, che è l'inizio di tutto un poutpourri di eventi grotteschi e mirabolanti (e tutto perché Annuska ha versato l'olio di girasole, diamine). Oggetti che spariscono o riappaiono dove non dovrebbero, uno scapigliato direttore teatrale teletrasportato a Jalta, poeti mediocri che impazziscono e girano in mutande per Mosca dando la caccia ad allucinazioni, carte da gioco che si trasformano in rubli, rubli che si trasformano in dollari, funzionari che scompaiono lasciando solo la giacca (la quale continua tranquillamente a svolgere il loro lavoro). E un distinto gatto nero di nome Ippopotamo (o Behemot, volendo). Tutti espedienti con cui il buon Michail Afanas'evic si fa sonore quanto sottili beffe della fatuità della vita che ha intorno, della crisi degli alloggi, dell'a lui insopportabile pragmatismo sovietico che non lascia spazio ai voli pindarici, degli intellettuali di regime e compagnia bella.

Nel frattempo (anzi, in un altro tempo e un'altra dimensione) Pilato ha mal di testa. Un'emicrania insostenibile, da quando gli hanno portato davanti quel vagabondo, Ha-Nozri... Non aveva scelta, ha dovuto farlo giustiziare. Eppure aveva qualcos'altro da finire di dirgli, un discorso in sospeso, prima di mandarlo alla croce. E la luna inonda l'odiato palazzo di Erode, poi di nuovo il giorno, mentre in Yerusolaim gli eventi precipitano, e Pilato già sa che non avrà modo di salvare Giuda di Qeriot dalla sua sorte. Ma già si è tornati a Mosca negli anni '30, e le due città stranamente paiono sovrapporsi...

Ma la storia di Pilato è rimasta lì in sospeso. Il suo autore, il maestro, non l'ha più ripresa da quella notte di autunno, quando, frustrato dalla freddezza dei burocrati, l'ha bruciata (sebbene, parola del diavolo, i romanzi in realtà non brucino) ed è finito in una clinica psichiatrica. Il maestro, chiamato così senza aver pubblicato niente, solo per quel romanzo su Pilato. E solo da lei, Margherita, che dovrà ritrovare prima di riprenderla, quella storia. Oltre a trovare un discepolo che possa finirla. (Ed è proprio vero che se non si hanno conoscenze importanti - tipo Satana - non si riesce a pubblicare niente...)

Ricomponiamo il tutto, riscrivendolo con toni a volte descrittivi o poetici, altre paradossali e grotteschi, dal retrogusto mistico, passando per gustosi sprazzi di ironia. Quello che viene fuori è un originalissimo apologo sul tempo moderno, e più universalmente sul bene e sul male, oltre che un'apologia dell'irrazionale e della fantasia. Perché l'artista, avverte Bulgakov, non può star lì attento alle norme burocratiche e alle direttive del partito, costretto a ripetere la lezioncina dello spirito del tempo. Piuttosto, meglio volarsene di notte su cavalli impalpabili insieme al diavolo, a Margherita, a Korov'ev, ad Azazel e a un gatto di nome Ippopotamo (o Behemot, a seconda).

E ora non so se il fatto di averlo letto in un'edizione ad alto rischio di spappolamento (rischio che cresce, peraltro, con gli anni), risalente al medio Eocene e con tutte le virgole messe a cazzo - benché esteticamente molto affascinante - sia stato nel complesso un bene o un male, ma a parte tutto è un buon libro davvero.

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