Mike Oldfield - Return to Ommadawn 2017

Il peggior tempo per la vita è il miglior tempo per l’arte.

Ho sempre tenuto in grande considerazione questo assioma e ne ho riscontrato personalmente la funzionalità: ogni forma d’arte mi ha dato ampi esempi, dalla poesia, alla pittura, per arrivare senz’altro alla musica.
Mike Oldifield, che spero non abbia bisogno di presentazione alcuna, se ne esce da pesanti esperienze familiari con la morte del padre prima e del figlio trentenne poco dopo. E, mentre superare il primo lutto è un triste esercizio generazionale, il secondo dev’essere tra le cose più devastati al mondo. Moralmente distrutto, ad ottobre 2015 annuncia di volersi mettere al lavoro e di voler preparare un sequel per uno dei suoi lavori più acclamati, “Ommadawn” del 1975 che ebbe, per certi versi, più attenzioni di critica persino del gigante “Tubular Bells”.

Come allora si è trovato un posticino tranquillo e alla mano, tipo Nassau nelle Bahamas, si è chiuso in sala di registrazione e ha dato sfogo a tutti i propri sentimenti, scuri, opprimenti, talvolta più liberi e sereni, ma sempre fortemente intimistici. Non si tratta di riproposizione di temi editi, ma di materiale composto ex novo per l’occasione e, proprio per rinverdire i fasti dell’epoca, ha voluto tornare al modello che vede una lunga suite, distribuita in due parti, così da ricreare l’idea delle due facciate del vinile.

Se la costruzione del primo Ommadawn era caratterizzata dal sovrapporsi e dall’alternarsi di decine di strumenti, in un gioco di intarsi mirabile quanto unico, qui la medaglia rappresenta il suo rovescio e tutta la strumentazione diventa parca, asciutta, minimale: quel tanto che basta per rappresentare l’idea. D’altronde ad una casa bastano solai, muri, finestre e pavimenti, non sono più i tempi delle gargolle, dei modiglioni, dei timpani, dei capitelli, degli erker e dei fronzoli estetici con più o meno funzionalità. Nel rappresentare la sua attuale casa interiore, quel poco che serve è quello che ci ha dato, nulla più.

Non sono solo gli elementi ad essersi assottigliati in numero, quello che salta fuori da questo disco è una fortissima semplificazione delle composizioni e delle modalità esecutive. Quasi che l’impressionante capacità dimostrata negli anni, si sia senilmente annullata e gli arpeggi, le modulazioni, le diteggiature, siano quelle di un anziano che lavori a fatica. In certi momenti sembra di sentire un grande impegno, un grande lavoro, quasi quello di un atleta che tenti di strappare un record del mondo con i mezzi a sua disposizione, ma il risultato manca. Tanto rispetto per questo, ma, intendiamoci, Oldifield non ha 100 anni e non è l’unico musicista attivo dai primi anni ‘70.

Il difetto principale di questo disco è il suo indurre in uno stato di torpore da noia. Scatena un ineludibile addormentamento da autodifesa, ti fa chiudere gli occhi con lo stesso irrefrenabile desiderio che hai quando la tramontana ti asciuga troppo l’iride.
E’ un disco fuori tempo massimo, fatto da un maratoneta che arriva al traguardo quando la giuria sta già smontando il bancone della punzonatura, le luci sono ormai spente e i netturbini spazzano via le ultime cartacce dall’asfalto. Eppure era un fior di maratoneta, un genio precoce e totale, fin dai suoi primi incisivi giri di basso con i Whole World di Kevin Ayers.

È che stiamo parlando di Mike Oldfield, uno che ha venduto l’iradiddio di dischi e se ne esce con un arpeggio, a circa dieci minuti della prima parte, che sembra di sentire, per chi se li ricorda, gli Oliver Onions di “Verde” oppure con i crescendo tribali da indiani in giro al Tepee qualche minuto dopo o ancora con frivole quanto inutili gighe celtiche su tenui tappeti arpeggiati e con i vocalizzi che sembrano, sbadatamente verso la fine della seconda parte, voler riprendere quelli storici di “Tubular Bells”. Dei circa quaranta minuti del disco mi convincono sì e no tre, quattro minuti.

Tornando all’assioma iniziale: “Il peggior tempo per la vita, è il miglior tempo per l’arte”? Mi devo ricredere oppure ipotizzare un’eccezione che conferma la regola? “Return to Ommadawn”? No, grazie.

Sioulette p.a.p.

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