"Non impossibile. Inevitabile, Mister Anderson" (Agente Smith, da "Matrix: Revolutions" Andy e Larry Wachowsky)

E' inevitabile cominciare con un luogo comune: sono giornate strane.

Tra ministri che usano vocaboli (anche se miei amici, ora persi in paradisi artificiali, direbbero “vaccaboli”) come “choosy”, gente di Sinistra che invoca il fallimento della Destra e non si accorge che rischia di essere rappresentata, alle prossime elezioni, da un democristiano che come “PR” ha un ex galoppino del Silvio nazionale (non che le alternative sian più credibili...), giornalisti (la tentazione di mettere le virgolette era forte) che “discettano” su fogne e bidet, indignazione a comando per cari estinti, discussioni se sia più grave accoltellare un paio (o di più?) di svedesi o cantare “Vesuvio, lavali con il fuoco”, piccoli e grandi razzismi (da ambo le parti: fermiamo l'ipocrisia, please!) e altre amenità (che, diciamocelo, ormai fanno parte del nostro vivere quotidiano) ce ne sarebbe per scrivere un editoriale e invece sono qui a scrivere una recensione.

Scrivo una recensione perché, appunto, sono giornate strane: in tutto questo bailamme dovrei essere arrabbiato, deluso, scettico e via dicendo in una cartina tornasole dell'umore civico che “steinbeckianamente” si potrebbe riassumere con “L'Inverno del nostro Scontento” (ma quanti ce ne sono stati?) ed invece nonostante stamattina si sia pure impennato il prezzo della confettura alle fragole non riesco a imbrunire il mio stato d'animo.

E' inevitabile proseguire con un luogo comune: le cose cambiano.

A lungo andare (se riesce ad evitare l'auto-estinzione per abuso tecnologico) il genere umano è destinato a migliorarsi sempre più (e l'esistenza dell'Italia in quanto ente nazionale unico e indivisibile non è variabile necessaria a ciò come del resto la presunta superiorità morale occidentale) ma non è di questo che voglio parlare ma semplicemente riflettere sul breve prospetto.

Quando ero “piccino” una delle cose che odiavo maggiormente era “Sledgehammer”: ora adoro tutto di Peter Gabriel (e sono tra quelli che preferiscono la sua carriera solista a quella con i Genesis). Nello stesso periodo disprezzavo gli asparagi (e l'immortalità dell'anima) e ora continuo ad odiarli (idem). Tutto questo perché le cose cambiano ma lo fanno seguendo schemi che noi piccoli esseri di carbonio non riusciamo ad interpretare (almeno per ora).

Un po' come i polpi la cui vita biologica è troppo breve per accumulare le esperienze necessarie ad un'evoluzione cerebrale (altrimenti dominerebbero il mondo al nostro posto) il nostro sguardo è occupato a guardare il futuro mentre il presente ci sfila tra le mani. Ecco: in fondo sono troppo occupato a mettere filologicamente in ordine tutto quello che mi rappresenta per incacchiarmi sul serio. Sbaglio? Probabilmente si. Poi vedo tutta sta gente arrabbiata attorno a me che dal punto di vista “civico” alla fine è più passiva del sottoscritto perché finisce con il disperdersi in inutili “caciarate” e allora un dubbio mi viene. Ma nel mio piccolo preferisco non indagare oltre.

Guardando la lista delle mie DeRecensioni (questa è la 140esima) vedo che i buchi rimasti a celare uno sguardo d'insieme sulla mia essenza filologica sono sempre meno ma, ahimè, molti sono assai complessi da colmare (non che la cosa mi spaventi più di tanto): vuoi perché alcuni potrebbero essere doppioni, vuoi perché molti sono così personali che risulta difficile anche impostare un incipit, vuoi perché molti necessiterebbero argomentazioni difficili da proporre così come da accettare (soprattutto in questo Sito), vuoi perché, papale papale, riguardano personaggi poco amati dal DeBaseriano medio.

Così mentre ricavo un attimo libero dalle fesserie della vita rimuginando su tutto questo non posso fare a meno di ripensare alla mia infanzia (fino agli 8 anni: poi gli ascolti me li son selezionati da solo) segnata dalla perfida costellazione “Mina-Celentano-Battisti”. Non sto qui a spiegare i miei “rapporti” con gli ultimi due (magari più avanti) perché aggiungerei troppo in un discorso già ampio di suo ma sulla (ex?)“Tigre di Cremona” finalmente sto per arrivare. Per rimanere ai due aggettivi dominanti (“inevitabile” e “filologico”) devo ammettere che Mina fino ad un certo punto (i vent'anni circa) m'era abbastanza “indigesta” (al di la del riconoscerle evidenti doti tecniche che solo palese malafede può negarle), forse per “l'overdose infantile”, di cui sopra, ma in certo qual modo sentivo di esserle legato.

Non so se vi è mai capitato (penso di si). Sono quelle cose che accadono e che ti fanno sentire parte di un“universo a se stante e autonomo”: come scoprire che due tuoi “eroi” (esempio Neil Gaiman e Tori Amos) sono legati da una fraterna amicizia, cominciare ad apprezzare un'artista (Amanda Palmer) e vedere che anni dopo si sposa con uno degli “eroi” sopra, scoprire che Bruce Dickinson predilige il tuo stesso personaggio a fumetti (Silver Surfer) e così via in moltissimi altri casi. Ovviamente non sono così ingenuo da non capire che sotto ci sono fenomeni statistici spiegabilissimi ma mi piace pensare che ci sia un centro gravitazionale invisibile a decidere tutto ciò...

Mina ho cominciato ad apprezzarla ben prima che uscisse (1997) sto disco (per inciso il fatto che non sia stato ancora recensito potrebbe essere un altro segnale “dharmico”) e questo va precisato perché in quest'album c'è “Tre Volte Dentro Me” aka “Dentro Marilyn” degli Afterhours. Qui nasce un inciso ma sarò breve: ascoltando la versione di Mina (con arrangiamento di un certo livello) si intuisce che la forza del gruppo di Agnelli non era tanto nelle capacità tecniche (limitate, nessun problema a dirlo) ma in quelle espressive che, se mi permettete, hanno fatto di loro una delle migliori (la migliore a mio modo di vedere) realtà rock italiane di sempre.

“Leggera” all'interno della carriera di Mina non è sicuramente tra gli album più memorabili. Non ci sono canzoni che son rimaste nell'immaginario popolare, come spesso l'è capitato (appena un anno dopo, ricordo, incise “Mina Celentano” dov'è presente “Acqua e Sale”), neppure altre destinate ad un culto più elitario (di un solo anno prima “Cremona” con “La Bacchetta Magica”) dove pure la nostra spesso si distingue. E' un disco che io amo particolarmente per questioni affettive e “cosmiche” (mi sembra di averle già spiegate). Non mancano gli spunti validi anche qui (pur sempre un disco di Mina è) se non altro per il piacere di sentire la sua voce “giocare” con vari generi, l'abilità degli arrangiatori (capaci di inserire la voce-strumento di Mina in contesti sempre vari ed eleganti) che la circondano e la “diversità” del progetto rispetto ad altri lavori. Notevoli le atmosfere da club jazz retrò di “Someday in my Life” (duetto con Mick Hucknall), divertente la cover (“Suona Ancora”) dei Casinò Royale “duettata” con “Le Voci Atroci”, affascinate la “nera” settantina “Johnny” e, da segnalare, ovviamente la già citata “Tre Volte Dentro Me” dove è insolito l'inserimento in atmosfere soffuse e rarefatte (un minimalismo quasi lisergico) di un'interpretazione decisamente calda e vissuta.

Un disco che comunque rispetta il titolo (in molte canzoni pure troppo) e su cui non c'è molto altro da dire (buono il “minestrone” di opinioni proposto dalla pagina Wiki) se non l'invito di ascoltarlo (nelle info vi allego il link della mia playlist sul Tubo) prima di esprimere giudizi (la “recensione” votatela pure con 1 a raffica).

Emofiliaco nella sua versione dharmica.

P.s.: Mentre scrivo 100 donne sono state uccise in questa nazione dall'inizio dell'anno. Forse è da questi numeri che dovremmo partire ad arrabbiarci.

Carico i commenti... con calma