Questo gioiello malefico e crudele (che sa essere anche struggente e sublime) è il punto intermedio tra quel capolavoro che è "Blackwater Park" e quella perla solitaria e desolata che è "Damnation" (con il quale avrebbe dovuto formare un doppio album). Questa è la sintesi, ma in realtà c'è molto di più da dire, perchè "Deliverance" rappresenta un nuovo passo nell'evoluzione stilistica della band guidata da quel genio a 360° di Mikael Åkerfeldt (chitarrista completo, cantante eccezionale, sia in growl che in clean, e ottimo songwriter). Evoluzione che, comunque, non conosce soste e ad ogni capitolo ci regala qualcosa di nuovo.

"Deliverance" è totalmente diverso da "Blackwater Park". Qui, il doppiocassaro Martin Lopez ci riporta a "Orchid" e "Morningrise". Åkerfeldt e Peter Lindgren riducono l'uso delle chitarre acustiche, introducendoci anche riffoni e influenze di Thrash Metal, senza risparmiarci assoli fulminanti e taglienti (presenti in maggioranza ripetto al precedente). Martin Mendez invece si dimostra (un'altra volta) un bassista di ottimo livello, usando una varietà incredibile di bass-lines e supportando le due chitarre, sia nelle dure e pesanti parti di Death Metal, sia negli arpeggi (pochi). Åkerfeldt è devastante nel suo growl (un demone nero uscito dalle tenebre per trascinarti nel profondo e doloroso baratro della morte) migliorato ancora, ma anche malinconico e fragile nel suo cantato pulito. E le tastiere? C'è da dire che gli Opeth per le tastiere usano dei sessionists (nel DVD "Lamentations" compare l'ottimo Per Wiberg per esempio). Non va poi dimenticato l'apporto del leader dei Porcupine Tree, Steven Wilson.

"Wreath" ci fa subito capire la sostanza del disco, un genocidio elettrico ad altissima tensione, senza soste e poche aperture melodiche. Undici minuti di sfuriate chitarristiche molto Thrash, doppia-cassa da antologia (non l'effetto elicottero di Dave Lombardo, ma quasi) e growl malvagio. "Deliverance" (Title-Track) è uno degli apici stilistici degli Opeth. Ancora più dilatata (13.36), la malvagità del cantato Death si amalgama perfettamente con la suadente voce di Åkerfeldt. Un susseguirsi di frustate violente, arpeggi incantati e assoli fulminanti. Il capolavoro nel (ennesimo) capolavoro degli Opeth. "A Fair Judgement" si distacca dalle precedenti. Un pianoforte distante e malinconico, che danza su gelide e oscure note, ci introduce ad un'altro capolavoro. Mikael canta melodico e struggente e un assolo eccezionale ci accompagna dopo entrambe le prime due strofe. Un break in arpeggio e un altro assolo dai ritmi lenti e ammalianti, seguito da un nuovo attacco elettrico e un altro assolo, poi la calma, e parte strumentale conclusiva (perdonatemi la lunghezza, ma andava descritta tutta). "For Absent Friends" è l'eccezione. Un flebile raggio di sole nel mezzo di una tempesta. Due minuti e poco di intrecci tra una chitarra solista e una arpeggiante. "Master's Apprentices": mai la musica degli Opeth era stata così malvagia. Una partenza in stile Black Metal seguita da una pausa riflessiva, tranquilla, dove trova spazio anche la voce in sottofondo di Steven Wilson. Finale devastante con il rinnovato e sempre più violento growl di Mikael. Mai gli Opeth erano stati così brutali. La conclusiva "By The Pain I See In Others" riassume tutto ciò che contiene il disco, concludendolo in grande stile. Splendida la presunta "Hidden Track" con la sola voce di Mikael avvolta da effetti elettronici.

"Deliverance" non è sicuramente un album di facile ascolto, ma per chi ama la sperimentazione e un Death Metal dedito ad influenze progressive, potrebbe essere una sicura e piacevole scoperta in campo musicale. Se comunque volete avvicinarvi a questa band, consiglio il precedente "Blackwater Park" e l'ultimo "Damnation" (disco ispirato al Prog-Rock anni '70 senza Death Metal e chitarre iper-violente). Album ineccepibile.

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