"Heritage" è l’ultima fatica degli Opeth, facilmente reperibile online nonostante la data ufficiale di commercializzazione sia il 20 settembre.
Il disco si apre con la title track, lento e malinconico brano di solo pianoforte che ricalca concettualmente l’apertura melodica e pacata del predecessore "Watershed", in maniera più scarna ma ugualmente coinvolgente, tuttavia a differenza del precedente lavoro il disco prosegue in maniera ben differente. L’eredità che gli Opeth si sono apprestati a raccogliere è infatti quella del Progressive. Senza Metal, senza Death, puro e “semplice” Progressive. La band di Mikael Akerfeldt sorprende per aver nuovamente abbandonato la componente Metal del proprio sound e le tipiche linee vocali in growl del frontman; vi è tuttavia una differenza evidente, per chi scrive, nel sound di questo "Heritage" rispetto al precedente lavoro non Metal del gruppo, ovvero "Damnation". Se quest’ultimo a più riprese poteva apparire un disco d’intermezzi leggeri a-la-Opeth privi di sezioni Death Metal, l’ultimo lavoro degli scandinavi è opera maggiormente omogenea ed autonoma rispetto alla precedente discografia. I brani hanno maggior compiutezza e, se possibile, maggiore ricercatezza stilistica, fondendo magistralmente jazz, classica e rock con naturalezza invidiabile. Basso e batteria tessono complesse trame sonore, non di rado più fusion che rock, compiendo un lavoro eccezionale nel supportare le evocative linee vocali di Akerfeldt, che si dipanano su un tappeto di arpeggi classicheggianti, riff rock accattivanti ed “oscuri”, soli con sonorità jazzy, a tratti rock, a tratti psichedelici, mai scontati e banali.
In brani come “Famine” trovano spazio nella nuova dimensione più tipicamente progressive della band anche percussioni e flauti. Tastiere e pianoforte sono, questa volta, sicuramente meglio amalgamati nel contesto sonoro e decisamente più presenti. Fermo restando la malinconia e, a volte, la cupezza di fondo che caratterizzano tutta l’opera degli svedesi, nel disco si possono udire molti richiami a sonorità di gruppi basilari del Progressive anni ’70, quali King Crimson e Jethro Tull eppure gli Opeth restano sempre riconoscibilissimi, dimostrando di aver fatto tesoro della lezione dei maestri, rielaborandone gli insegnamenti alla luce del proprio sound, affrancandosi decisamente da uno sterile lavoro di citazionismo. I brani più interessanti sono “Famine” e “Folklore”, che entrano di diritto tra i lavori migliori della band. Certamente non è tutto oro quel che luccica: non mancano alcuni momenti di stanca ed autocitazioni, come nella prima metà di “Nepenthe” e di “Haxprocess”, ma si tratta di ben poca roba, se si considera la qualità del lavoro nel suo complesso.
In definitiva il disco è ispirato, magistralmente suonato e ben prodotto, ancora una volta con la collaborazione di Steven Wilson. E si sente. Necessita di ben più di un ascolto per poter essere assimilato.
Voto: 7,5/10
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Altre recensioni
Di JohnHolmes
Heritage è un album diverso, insolito, su questo non c’è dubbio.
Sono audace nel considerare gli Opeth come il gruppo metal più innovativo degli ultimi quindici anni.
Di Steady Diet
Il prossimo album non avrà nulla di death metal. Sarà solamente progressive rock.
È difficile non sbadigliare durante l'ascolto.