Ci avevano lasciato con due album, il discusso Ghost Reveries e l'ancor più controverso Watershed. Nel frattempo, diversi cambiamenti: fuori Lopez e Lindgren, dentro Axenrot, Åkesson e Wiberg (peraltro sostituito recentemente da Joakim Svalberg).

Heritage marca il ritorno sulle scene degli svedesi Opeth dopo un'assenza durata oltre tre anni, se si esclude l'episodio della Royal Albert Hall. Decimo album per la band, Heritage segna un netto punto di svolta per la band scandinava, che produce un lavoro totalmente diverso da quanto udito finora. Mikael Åkerfeldt, autore di tutta la musica, opta per un approccio retrò che, come sempre, muove dal progressive, e mette da parte la storica componente death metal. Emergono venature fusion e sprazzi folk, ciò a scapito della potenza sonora: i grande assenti del disco sono il growl, le distorsioni sature, la potenza del tupa-tupa death metal (che, per quanto elaborato possa essere, sempre tupa-tupa rimane).

Come My Arms, Your Hearse tredici anni prima, sono le eleganti note di un pianoforte ad accogliere l'ascoltatore, per poi cedere il passo a The Devil's Orchard, prima canzone, primo singolo e primo inequivocabile segno di cambiamento: che diavolo sta succedendo? Un Hammond che sembra rubato agli Uriah Heep, Mendez che gioca a fare Jaco, Åkerfeldt vocalmente ispiratissimo e tanto, tanto groove: siamo sicuri che si tratti degli Opeth?

I dubbi non possono che aumentare con I Feel the Dark, un brano meno sostenuto, dall'andamento oscuro, costruito attorno a toni acustici più ponderati, sconvolti dai potenti schiaffi elettrici finali. Ottimo il senso di tensione che riesce ad instillare nell'ascoltatore. È palese l'influenza del Blackmore periodo Rainbow in Slither, che richiama molto Kill the King, mentre in Nepenthe è possibile intravedere schegge di grandi della fusion quali Al Di Meola, Mahavishnu Orchestra, Return to Forever e anche un pizzico di Holdsworth, per un brano all'apparenza frammentario, ma molto intrigante.

Raggiunto il nucleo dell'album, la sensazione di cambiamento diventa consapevolezza: le atmosfere e il mood prevalgono, le tastiere intessono trame sonore e le chitarre si fanno umili. Se Häxprocess sfoggia uno stile più dimesso e malinconico, a tratti memore di Canterbury, non si può certo dire lo stesso di Famine e The Lines in My Hand: la prima, una rivisitazione "alleggerita" del tipico dark prog made in Opeth, la seconda, spumeggiante rock dalle tinte mediterranee. Folklore è un vero e proprio enigma: forse voleva essere una risposta moderna a una "epopea" quale A Fair Judgement, fatto sta che risulta essere un brano immaturo: buone idee che avrebbero potuto essere espresse meglio. Tra lo sfumare di delicate linee di chitarra debitrici di Andy Latimer, la toccante strumentale Marrow of the Earth pone il sigillo su Heritage.

Heritage è un album diverso, insolito, su questo non c'è dubbio, resta però da chiarire come si configuri all'interno del panorama musicale odierno ed, in particolare, nella discografia degli Opeth: si tratta dell'ennesimo capolavoro o è l'epic fail del 2011? Di certo non è un capolavoro ma è altrettanto vero che non è un album da buttare via frettolosamente. Sono audace nel considerare gli Opeth come il gruppo metal più innovativo degli ultimi quindici anni, un gruppo che, nel microcosmo del death metal, ha lasciato il segno, lo stesso non si può dire per quel che riguarda il progressive. Sia ben chiaro: i nostri hanno talento ma è ormai palese come da qualche anno a questa parte la vena si stia esaurendo, ragione per cui l'abbandono del death metal è stata la scelta più azzeccata, tuttavia Heritage non riesce a convincere pienamente: esplora territori nuovi, pur essendo a tratti manierista, ma manca quella coesione che anche solo in Ghost Reveries era molto più forte e di certo non è facile apprezzarlo, nemmeno per i fan della prima ora, un vero e proprio acquired taste. Fortunatamente non mancano alcuni aspetti positivi: spicca la prestazione dei singoli, in particolare la sezione ritmica Mendez-Axenrot, registrata in presa diretta: il primo sempre più bravo e spavaldo, si dimostra ancora una volta un grande musicista - è ormai entrato nell'Olimpo dei bassisti - il secondo si scrolla definitivamente di dosso la reputazione di "death metal drummer", regalandoci una prestazione coi fiocchi, colma di tempi dispari, passaggi molto sofisticati e finezze degne del Martin Lopez dei bei tempi.

Da ultimo la Roadrunner, sinonimo di qualità, si è prodigata nel creare un hype che ha avuto come unico effetto quello di deludere l'ascoltatore che, date le premesse, si sarebbe aspettato quantomeno un album "totale": Heritage non lo è, ma vale sicuramente più di un ascolto, concedeteglielo.

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