In data 24 Novembre 2011 l’Heritage Tour degli Opeth sbarca a Milano. Gli svedesi vengono accompagnati dai Pain of Salvation in una serata che si preannuncia eccezionale.

Dopo un pomeriggio di prove con la mia scalcinata band, prendo la metropolitana e mi dirigo dall’altra parte della città.

Una volta arrivato all’Alcatraz, mi ritrovo un’ enorme coda davanti all’ingresso che mi concede l’occasione di terminare la mia succulenta cena (kebab… yum).

Finalmente, alle 19:45 entro nel locale, spazioso ma già quasi interamente occupato. Sono quasi tutti lì per gli Opeth, ansiosi di scoprire cosa è cambiato con l’arrivo delle nuove sonorità di Heritage.

Dopo neanche dieci minuti le luci si abbassano e sulle note del “Road Salt Theme” la band di Daniel Gildenlöw entra alla spicciolata. Quest’ultimo non perde tempo e dopo un breve e cordiale saluto dà il via alle danze.

Come previsto quasi tutti i pezzi della scaletta provengono dagli album della Road Salt, con l’unica eccezione del grande classico “Ashes”.

I PoS sono decisamente scatenati, dotati di una carica incredibile purtroppo non ricambiata dal pubblico, probabilmente preparato per il mood più calmo e composto del progressive "opethiano".

Solo più avanti gli spettatori si lasceranno andare, travolti dal carisma del frontman: Daniel diverte e si diverte (impagabile la scena durante il brano “1979” in cui egli chiede “Do you remember?” e dalla folla si sente un fortissimo “YES, I DO!”, scatenando l’ilarità generale e strappando un sorriso divertito ai membri della band), e ha una squadra eccezionale che lo supporta nel compito.

Tuttavia, mentre guardo Johan che scuote i suoi imponenti dreadlocks e Fredrik che accompagna la performance con le sue soffici tastiere, la mia mente torna all’annuncio del loro abbandono che seguirà alla fine del tour e tristemente mi domando cosa riserverà il futuro a questa band che tante ne ha passate nell’ultimo anno.

A metà della scaletta Daniel mostra due t-shirts: la prima è a supporto della causa contro la pirateria, la seconda fa parte del merchandise e ritrae la copertina di Road Salt II (“The ugliest thing I’ve ever seen”, scherza il cantante).

La band cambia spesso strumenti durante l’esibizione, in particolare Daniel che imbraccia a rotazione chitarroni e acustiche Ovation.
Alla fine della loro breve ma intensa prova l’applauso della folla è caloroso e sincero, e i Pain of Salvation lasciano il palco sicuri di aver dato il meglio per questa serata.

Dopo un minuzioso cambio di scenografia, le luci si abbassano di nuovo e la folla va in delirio. Eccoli, gli Opeth,  accompagnati dal brano “Through Pain to Heaven” dei Popul Vuh: gli svedesi partono in quarta con “The Devil’s Orchard”, mandando semplicemente in palla gli spettatori (compreso il gigante davanti a me che si contorceva in modo da impedirmi di assistere allo show...).

La scaletta è piuttosto inusuale per loro: non c’è traccia del death metal, completamente messo da parte a favore di tracce clean e progressive dai vecchi lavori, degno accompagnamento per le atmosfere di Heritage.

Come al solito, la scena viene rubata da quell’istrione di Mikael Åkerfeldt che regala spezzoni cabarettistici semplicemente esilaranti (dalla suo rinnovata passione per la discografia del “big boss” Eros Ramazzotti agli sfottò rivolti alla pinguedine del buon Martin Mendez).

La serata prosegue con “I Feel The Dark”, la bellissima “Face of Melinda”, un drum solo da cardiopalma di Martin “Legolas” Axenrot durante “Porcelain Heart” e la jazzistica “Nephente”.

Vengono quindi portate due sedie (“Old men must take a sit”, dice Mike) e parte un set acustico molto bello ed evocativo che placa i "metal heads" più convinti con il tris “The Throat of Winter”, “Credence” e “Closure”. Ancora una volta il frontman non perde occasione di farci spanciare strimpellando una canzonetta pop assieme a Fredrik Akesson.

Imbracciate nuovamente le chitarre elettriche, Mikael cita un po’ di influenze della band: fra queste spicca in particolar modo la buon’anima di Ronnie James Dio, a cui la band dedica la concitatissima “Slither” (inutile dire che la folla a questo punto era dannatamente su di giri).

“A Fair Judgment” (brano che mostra una notevole somiglianza con “Sleep of No Dreaming” dei Porcupine Tree) e “Hex Omega” chiudono il ciclo del vecchio repertorio. I nostri lasciano per pochi secondi il palco.

Una volta rientrati, Mikael ci ringrazia per essere venuti ad assistere al concerto e spera di vederci anche per il 2012, quindi presenta nella sua solita maniera goliardica i membri della band. Non mancano delle piccole chicche: Akesson ci delizia con qualche lick neo-classico da vero guitar hero, mentre il nuovo arrivato Joakim Svalberg si cimenta in qualche bel motivo con mellotron e tastiere.

Si chiude con “Folklore”. I nostri si inchinano davanti ad un pubblico festante, e la serata è terminata.

Non fatevi intimorire dagli insoddisfatti: la scelta di fare un concerto senza growl può non piacere, ma non si può dire che senza di esso questi svedesi perdano spessore, tutt'altro! Gli Opeth hanno trovato una nuova, sofisticata direzione da seguire senza tuttavia snaturare la loro vera natura.

Esco dall'Alcatraz con le gambe molli per il freddo, per le oltre due ora passate in piedi e ovviamente per l'emozione di aver visto uno spettacolo di tale portata. Un'esperienza che sicuramente ripeterò anche l'anno prossimo!

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Altre recensioni

Di  splinter

 «Il voler rinunciare a pezzi marcatamente tirati permette ai musicisti di mettere meglio in mostra le qualità compositive ed esecutive.»

 «Il suo continuo deridere simpaticamente Eros Ramazzotti merita tutta la mia stima.»


Di  JohnHolmes

 Mikael Åkerfeldt, ovvero il Frank Sinatra del death metal o, se preferite, i baffi più famosi di Stoccolma.

 Un bel concerto, niente da dire, non indimenticabile, ma comunque notevole.