Gli Opeth. Ci sarebbe da scrivere parecchio su questa band svedese, capace di mescolare la violenza del death con la precisione e il virtuosismo del prog e la zampillante fantasia del jazz e chissà con cos'altro ancora. Spesso vengono criticati per la loro relativa incapacità di evolversi, oppure per la monotonia delle loro lunghe e complicate canzoni, ma anche per l'azzardata fusione dei generi sopracitati che non a pochi ha fatto storcere il naso (le orecchie?). Eppure la loro musica ha sempre attratto ed affascinato molti, me compreso ovviamente.

Dopo l'apprezzabile esperimento di "Damnation", con "Ghost Reveries" i nostri si sono rimboccati le maniche e hanno cercato di ammorbidire la propria musica, non a caso vi troviamo parecchi episodi privi o comunque alleggeriti di quella durezza che spadroneggiava in album quali "Morningrise", "Still Life" ma soprattutto "Deliverance", dove il possente growl di Akerfeldt occupava praticamente tre quarti del tempo. Ora con questo nuovo "Watershed" il gruppo esegue, sulla falsa riga del predecessore, un lavoro sempre più sbilanciato verso il loro lato più "soft", orecchiabile ed apparentemente inoffensivo. Non fraintendete, siamo lungi dall'essere di fronte ad una spudorata scelta commerciale (anche se, bisogna ammetterlo, la band sta conquistando un pubblico sempre più vasto), ma molto più semplicemente si tratta di un ribaltamento di sound rispetto ai lavori iniziali: gli Opeth stanno gradualmente ma inesorabilmente mettendo in luce l'altra faccia della loro medaglia; scordatevi perciò quasi del tutto le lunghe e meditabonde sfuriate death intervallate da momentanei sprazzi di luce accompagnati dal cantato in clean di Mikael e aspettatevi che accada esattamente il contrario: per la maggior parte canzoni che hanno come protagonista la parte meno violenta, interrotta bruscamente da sassate di granitico death sfuggevolmente melodico.

Non fatevi quindi ingannare nè dall'opener "Coil", che a dirla tutta mi ha lasciato un pò interdetto per la sua breve ma incantevole linea melodica (e specialmente per la temporanea presenza della cantante Nathalie Lorichs), tantomeno dalla traccia seguente "Heir Apparent", introdotta da un riff ossessivo quasi doom e spettrale con un Akerfeldt che ci mostra quanto la sua gola possa reggere la tonante potenza di un growl cupo ma ribollente; l'elemento jazz si fa sempre sentire qua e là nel corso della canzone che risulta essere lunga (quasi nove minuti, ma gli Opeth ci hanno oramai abituati) e c'è da spulciare parecchi dettagli che ad un orecchio poco attento potrebbero facilmente sfuggire. Tutto sommato una canzone che si attiene agli standard opethiani, anche se in qualche modo possiamo già fiutare il cambio di atmosfera, di mood generale che permarrà in tutto il cd.

Ma è con la meravigliosa "Burden" che viene liberata tutta la luce che gli Opeth hanno in serbo per noi; un'intro commovente di piano e subito giunge Mikael a deliziare le nostre orecchie con una melodia triste ma veramente coinvolgente che si mantiene viva e carezzevole fino alla conclusione del brano, tutta affidata agli strumenti perfettamente armonizzati tra loro: la batteria mai troppo invadente (buona la prestazione della new entry Martin Mendez), le chitarre giocose ed ammalianti e la tastiera che contribuisce ad amalgamare il tutto.

Altri brani risultano essere molto buoni: "The Lotus Eater" per la scelta originale di accompagnare il cantato pulito con un blast beat spedito e convincente, ma soprattutto per il geniale intermezzo jazz/funk che mi ha fatto sorridere soddisfatto, ed "Hessian Peel" per il già citato contrasto tra calma e violenza, sempre mantenendo costante e predominante il primo elemento in tutti gli undici minuti che scorrono lisci e mai pesanti.
Tuttavia vi sono un paio di punti in cui l'originalità viene proprio meno, e si tratta di "Porcelain Heart", che avrà pure un riff iniziale da brividi ma procedendo con l'ascolto la song diventa troppo frammentaria e dispersiva, e il brano di chiusura "Hex Omega" che inizia alla grande e si conclude alla grande, ma nella parte centrale sembra quasi composto a casaccio, come se la band si trovasse in sala registrazioni con gli strumenti alla mano senza però avere la minima idea di come diavolo ostentare la canzone almeno fino ai sette minuti, rendendo solo il brano troppo forzato ma nel complesso sufficiente.

Insomma, questo è un buon lavoro che non fa della sperimentazione la sua arma vincente ma gioca di più sul B-side della band, anche se devo ammettere che al primo ascolto "Watershed" non mi era affatto piaciuto, già al secondo però mi aveva intrigato, al terzo ascolto ho incominciato a studiarlo nei minimi dettagli e al quarto è partita l'opethite acuta e non mi sono più staccato dal lettore cd. Gli Opeth sono sempre stati così, difficili da comprendere e spesso impegnativi, ma una volta assimilati diventano quasi una droga.

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