E' abbastanza complicato trovare un solo sostanstivo uno per descrivere la musica uscita dagli strumenti degli Opeth, allo stesso modo si fa fatica ad analizzare le singole sezioni dell'opera, e parlare di semplici canzoni, potrebbe sembrare riduttivo, nonché limitativo, barriere appunto che non appartengono agli Svedesi. Il termine più giusto in questo contesto, che descrive al meglio il flusso continuo di note, diviso in sette atti, è solo uno: piccole colonne sonore. Una sorta di viaggio fisico e spirituale allo stesso tempo, con una trama in continua evoluzione, con grandi effetti speciali e colpi di scena, che ti porta a viaggiare in dimensioni parallele ora eteree, ora desolate e malinconiche, ora drammatiche.

In "Watershed" (2008) ultimo disco di inediti dei quattro (che vede anche l'ingresso nella line-up del nuovo chitarrista e batterista) c'è tantissima carne al fuoco, forse anche troppa. Passaggi di puro stampo death metal, ribollenti e cupi growls vengono accompagnati da influenze progressive rock e onnipresenti clean vocals eleganti e raffinate, che si uniscono ad atmosfere dark ed echi di jazz, folk e blues. Una ricca ragnatela sonora liquida, multiforme e multicolore, su cui si stagliano pianoforte e tastiere, chitarre acustiche, violini, violoncelli, viola, corni e oboe.

Un opera sicuramente molto impegnativa e probante per le orecchie dell'ascoltatore e del metallaro medio. Se spesso rendano eccessivamente lunghe le loro composizioni quasi per gusto risultando prolissi, non si può però non ammettere, che ci troviamo di fronte, ad un gruppo esportatore di qualità.

La breve e acustica "Coil" con i suoi riverberi e ornamenti vagamente folk apre le danze e vede l'alternarsi al microfono tra il leader Mikael Akerfeldt e la voce femminile di Nathalie Lorichs, prima vera novità del disco. Un pezzo stranamente semplice per gli standard degli Opeth, con tanto di forma canzone ben esplicita, quasi una rarità. Composizione, questa, che ricorda vagamente la bella "The islander" dei Nightwish.

La quiete e le note avvolgenti dell'opener vengono però subito spezzate da "Heir Apparent" condensato doom death metal infuocato, in cui emerge il terribile growl di Akerfeldt, che risuona all'unisono per tutta la canzone, interrotto solo da stupende distese strumentali (meravigliose le accelerazione furibonde a metà strada e il finale con l'assolo in progressione a dir poco epico) e da qualche fraseggio di chitarra acustica e strumentazione aggiuntiva, che spezza per un attimo la tensione, di quello che a tutti gli effetti sarà il pezzo più pesante tra i sette, nonché la migliore.

"The Lotus Eater" si caratterizza per la scelta di accompagnare il cantato pulito a un spinto blast beast in sottofondo, mentre tematicamente continua il discorso della precedente, sebbene stavolta venga dato di nuovo rilievo alle clean vocals in accompagnamento al growl.

Il pezzo viene spezzato in due tronconi da una lunga parte progressive, in cui fanno breccia violini e successivamente uno stravagamente intermezzo elettronico sviluppato dalle tastiere, che sembra uscito fuori da un gioco del Nintendo.

Successivamente arrivano i pezzi più melodici, la malinconica e riflessiva "Burden" aperta da un commovente giro di piano, con forti richiami seventies,chiusa da uno stravagante de-tuning dell'acustica, e le atmosfere ora chiare ora scure del singolo "Porcelain Heart", che alterna con precisa dimestichezza sezioni sognanti e acustiche a parti più metal e sprezzanti, raggiungendo il climax nell'ultimo break acustico prima dell'azzeccata tempesta elettrica conclusiva. Entrami i pezzi vedono totale presenza di linee vocali pulite.

Mentre i pezzi finali sono probabilmente quelli meno interessanti e sollevano qualche dubbio specie la sesta "Hessian peel", eccessivamente prolissa nei sui quasi undici minuti e mezzo, nonostante una bella atmosfera tranquilla della prima parte, che ti prende, ma che viene rovinata da eccessive divagazione strumentali e da dei growl a metà percorso francamente fuori luogo.

La conclusiva "Hex Omega" sempre riprendere la staffetta acustica/elettrica di "Porcelain Heart" ma con risultati inferiori riguardo il coinvolgimento emotivo.

Non ci sono grossi difetti in fase di songwriting, sebbene a volte una maggiore semplicità delle strutture di fondo, e un dosaggio più oculato degli ingredienti sonoro, avrebbe giovato. Per dare voce, a quanto da me espresso, vale la pena di prendere la già citata traccia numero sei.

E' un opera, che va ascoltata per bene, per poter esssere compreso in tutte le sue sfaccettature e per coglierne appieno ogni dettaglio. Alcuni ameranno Watershed, altri lo troveranno noioso, tuttavia è un tipo di musica, che va ascoltata solo in certi momenti della giornata, e in assolutà tranquillità, meglio se in cuffia, soli con se stessi.

Una pietanza gustosa che và consumata con giudizio e moderazione, a piccole dosi, senza abusarne eccessivamente.

Voto disco 3.5/5

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