"Mi assumo pienamente la responsabilità di quello che sto per dire" (frase in auge di questi tempi tra opinionisti, giornalisti e politici nei salotti buoni di quella scatola di merda che chiamiamo TV, quasi che di recente in questo paese si abbia un qual certo timore a dire ciò che si pensa realmente): per il sottoscritto Paul Bley rimane il pianista (tastierista) più importante del free jazz mondiale quanto lo fu Earl "Bud" Powell per il be-bop americano. Lo ammiro tanto nel suo giovanile e tortuoso percorso alla ricerca dell'unione perfetta tra struttura melodica ed ispirazione indiana, quanto nel periodo a cavallo dei '50 e '60 durante il quale si presta soprattutto come esecutore al pianoforte per Charlie Mingus, Don Cherry, Ornette Coleman, Jimmy Giuffré e soprattutto per i brani scritti dalla moglie Carla Bley.

Ma l'ormai novantenne Paul Bley è molto di più di un semplice pianista jazz, è la dimostrazione (anzi l'emblema) vivente che il free jazz non è stato una prerogativa degli artisti di colore, almeno per ciò che concerne la nascita del genere. Anzi si può tranquillamente affermare che Bley, canadese di nascita ed americano d'adozione, faceva free jazz prima ancora che il termine venisse coniato. Da sempre sfavorevole ai valori musicali, etnici ed etici del jazz tradizionale, questi ha lentamente contaminato le belle melodie con una sapiente mescolanza di ritmi esotici e sperimentalismi di ogni sorta. Qui mi allaccio al disco in questione; dopo la separazione da Carla Borg lega artisticamente con Annette Peacock ed inizia una prolifica collaborazione riservata soprattutto alle esibizioni dal vivo, abbandona quasi totalmente la tenera poetica melodica delle opere soliste precedenti per avventurarsi in territori musicali al limite dell'avanguardia. "Improvisie" rimane ai posteri come la testimonianza più concreta di questo suo "sviluppo in progress", iniziato con il jazz alla Oscar Peterson e culminato in spettacoli per tastiere elettroniche e sintetizzatori.

"Improvisie" è stato pubblicato per la prima volta nel 1972 e contiene due suite ("Improvisie" e "Touching") registrate dal vivo a Rotterdam il 26 marzo dell'anno precedente; accanto a Paul (piano elettrico e sintetizzatore modulare Moog), Annette Peacock ai medesimi strumenti più la voce ed il percussionista Han Bennink. Il disco è estremamente evocativo, la registrazione ineccepibilmente perfetta sebbene si tratti di un live, grazie anche ad una ripresa stereofonica che allarga l'orizzonte atmosferico a tutto vantaggio di un esperimento sonoro che merita di essere analizzato attentamente dall'ascoltatore. L'intento dei musicisti non era infatti quello di creare semplici cacofonie da spacciarsi per esercizio intellettuale; l'avvicinamento del tastierista allo strumento elettronico era stato consigliato dalla stessa Peacock sin dall'inizio della loro collaborazione (si ascolti a tal proposito l'album "Dual Unity") e per scopi ben precisi. Siamo di fronte ad un documento importante, una rivoluzione nel modo di creare del jazz libero da vincoli di forma anche se è pur vero che Sun Ra ed altri già da anni lavoravano con il sintetizzatore ma sempre in un contesto fastoso dove il vasto ensemble si allargava leggermente per far posto al nuovo venuto, il mezzo sintetico appunto. Bley e la Peacock danno totalmente carta bianca all'elettronica, il piano a coda viene surclassato dal suono caldo del Fender Rhodes e le caotiche improvvisazioni che prima erano prerogativa assoluta dei sassofonisti vengono ora svolte attraverso primitivi circuiti elettronici che generano sonorità tanto affascinanti quanto psichedeliche. I due, scambiandosi di continuo tra piano e sintetizzatore, creano un insieme di note ed effetti fluttuanti accompagnati dalle percussioni in un lodevole interplay per la creazioni di pezzi essenzialmente strumentali, anche se in un paio d'occasioni la voce della Peacock trova spazio tra i solismi di Bley; essa canta intensamente in maniera quasi catatonica, ricorda vagamente la Patty Waters dei momenti meno orgasmici.

L'album risente solamente della mancanza del contrabbasso, forse anche il piano acustico avrebbe riscaldato l'animo ai puritani del genere; questi sono i due strumenti che legati all'elettronica hanno contribuito al successo del disco Dual Unity registrato appena un anno prima, tuttavia in "Improvisie" si scorge più chiaramente l'idea alla base del duo Bley-Peacock, quella appunto di far svolgere alla macchina il lavoro sporco, quello che anni prima era praticato dai solisti del jazz, coloro che si sarebbero totalmente aggiudicati il plauso generale degli ascoltatori. Quest'ultimi troppo spesso si erano però scordati che nel free jazz non esiste e mai potrà esserci la figura del solista in quanto ogni esecutore è sempre solista di sé stesso.    

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