Ho una teoria particolare sul modo di ascoltare alcuni piani solo...
Bisogna fingere di essere i protagonisti del recital, seduti al posto del titolare, di fronte alla tastiera bianca e nera, e pensare ai destinatari del proprio messaggio. Solo così si potranno davvero interiorizzare le astrazioni, fare propri alcuni passaggi atonali, rendere lirico e dolce un momento percussivo; nel silenzio e nell'oscurità della sala di registrazione (o da concerto) proviamo ad immaginare, sedute in regia (o in platea), le figure che più abbiamo amato nella nostra vita, le più importanti, e di dovergli rivolgere le ultime parole di commiato. L'ultima occasione per le confessioni più intime, più segrete. Parole d'amore, parole di rabbia, parole mai dette, per dar vita ai ricordi, farli riaffiorare in superficie e mandarli alla deriva, trasfigurati. O anche solo immaginare quel che poteva essere, godere delle proprie malinconie, dei propri rimpianti. Riscoprire il fascino sensuale, il carisma, la brillantezza di cui siamo capaci per vincere le nostre sfide, per imporci nella vita. Sentire la vita stessa scorrere sotto le note cristalline, esseri infinitamente piccoli, di carne e sangue che entrano in contatto con l'inconoscibile, l'infinitamente grande. Produrre col piano la commozione per la bellezza, l'esaltazione della propria passionalità, a tratti ingenua ed infantile, a tratti tenebrosa e malvagia. Alzare la voce per farsi capire, se serve. Fare il solletico, prendere in giro. Assaporare gli elogi di chi è fiero di noi, sapendo di esserseli meritati.
Paul Bley ha il grande dono di poter suscitare questi viaggi senza fine nelle teste di chi si vuole predisporre al volo libero. Riesce a trasportare l'ascoltatore in un mondo tutto suo, in cui la melodia, sempre presente, non è quasi mai esplicita e ben delineata, quanto vaporosa, accennata, da scoprire per mezzi derivativi, obliqua, incompleta. Il blues, la forma-canzone, le varie strutture su cui si poggia il suo pianismo, convergono tutte in una forma libera, uno stile “totale” all'interno del quale reminiscenze di Chopin convivono con clusters alla Cecil Taylor e altre sonorità nei confronti delle quali anche lo stile di Jarrett ha un grosso debito.
Già, le sonorità. Il suono. Qui il suono è FONDAMENTALE. Se già è vero che in un rendezvous con la musica come il piano solo, il suono stesso da significante si fa significato, a maggior ragione ciò è vero con un'artista del calibro di Paul Bley, così attento al timbro, agli spazi e alla dinamica. E ancora di più considerando la casa discografica, la ECM, da sempre attentissima alla qualità di registrazione, qui impeccabile come sempre. Dulcis in fundo, lo strumento. Un superbo Bosendorfer Imperial, davvero regale e aristocratico. Note alte che suonano come gocce di pioggia, note gravi come tuoni.
Delle dieci “variazioni” che compongono i 55' del “Solo In Mondsee” (che variazioni non sono), una in particolare mi ossessiona; sono capace di metterla in repeat 4-5 volte e ogni volta mi trovo a serrare gli occhi, corrugare la fronte e scuotere la testa vittima del coinvolgimento lirico. La quarta.
Sicuramente una delle migliori uscite del 2007 (registrato però nel 2001, con Paul Bley sessantanovenne), questa meraviglia merita, richiede e necessita di numerosi e appassionati ascolti. Magari con la “tecnica” da me suggerita. Buon volo!
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