Paul Chain, al secolo Paolo Catena. Un talento italiano la cui genialità è riconosciuta anche a livello internazionale, ma che nonostante ciò è sempre rimasto lontano dall'olimpo delle superstar, preferendo circolare nell'ambiente underground.

Polistrumentista, ex-membro fondatore dei leggendari Death SS, Paul Chain è uno tra i primi sperimentatori del Doom Metal, che egli interpreta in maniera del tutto personale e sempre votata alla sperimentazione, con ampie contaminazioni da altri generi come la psichedelia. Dopo lo scioglimento dei Death SS, Paul Chain proseguì per la sua strada con i Paul Chain Violet Theatre, dando alla luce nel 1984 "Detaching From Satan", nel quale l'artista pesarese prendeva le distanze dalle sue passate esperienze musicali nella band votata al satanismo di Steve Sylvester, rinnegando così quella fase della propria vita. Chiarite in tal modo le cose, Catena nel 1986 diede alle stampe questo "In The Darkness", un concentrato di Doom sabbathiano con contaminazioni psichedeliche che creano quella tipica atmosfera pesante e ossessiva che egli era in grado di creare già ai tempi dei Death SS in pezzi come "Chains Of Death" o "Black And Violet" o ancora "The Bones And The Grave", ma che qui pervade il disco in tutta la sua durata.

L'album si compone di otto brani nei quali è sempre presente e palpabile l'ossessione di Paul Chain per la morte, cantata con la sua voce che a dirla tutta non è proprio il massimo della tecnica, ma che sa rendere efficacemente le emozioni del geniale autore, a tratti sofferta e paurosa, quasi rassegnata all'ineluttabilità del destino, a tratti invece grintosa e graffiante, ma senza perdere quell'alone di macabro. Quasi a voler sottolineare che ogni cosa di questa vita perde significato di fronte a Colei che alla fine di tutto trionferà sempre, Paul canta i suoi brani parte in inglese, parte in un linguaggio puramente fonetico: vale a dire che emette suoni che potrebbero sembrare parole straniere, ma che in realtà non hanno alcun senso.

Apre il disco la bellissima "Welcome To My Hell", introdotta da un arpeggio acustico, poi nel prosieguo cadenzata e, si potrebbe dire, carica di una macabra allegria: in poche parole un pezzo azzeccatissimo, tanto che il suo ex-socio Steve Sylvester la riprenderà, mantenendone inalterato il titolo, nel suo "Black Mass" del 1988. L'atmosfera si appesantisce parecchio con la seguente "Meat", che ci riporta a parametri e sonorità più Black-Sabbathiani: è un altro brano fantastico, dove la fa da padrone la chitarra sulfurea ed evocativa del nostro eroe, che crea qui uno dei picchi del disco, a mio avviso, facendo scaturire dai suoi oscuri accordi un'atmosfera carica di apprensione per un destino inevitabile e già intrisa dei fetori della tomba. La successiva "War" è un lentissimo pezzo psichedelico eseguito da Paul all'organo, mentre la sua voce pare giungere vaga e distante, come dall'Oltretomba. Dopo questa immersione in un'atmosfera ammorbante, l'artista ci propone "Crazy", pezzo più allegro e sempre di stampo sabbathiano, nel quale il nostro ci rivela divertito di essere essenzialmente un pazzo, come già ai tempi di "Schizofrenic" (1983), di Death SS-iana memoria. "Grey Life" è più decisa, grintosa, e introduce l'ascoltatore ad un suono più Heavy Metal, con riff più veloci e quadrati e cavalcate di chitarra inframmezzate da brevi assoli. La successiva "Woman And Knife" ha invece un incedere più sinistro e rinuncia alla velocità del brano precedente, pur rimanendo in lidi Hard e Heavy.

"Mortuary Hearse" ci riporta verso il Metal e ci ricorda vagamente il suono di una delle più vecchie canzoni dei suoi Death SS, "Black Mummy", della quale possiede il ritmo trascinante; verso la fine del pezzo Paul si concede anche un assolo da manuale, evocativo come al solito è il suo stile, mentre la cavalcata finale è accompagnata dall'organo. Un rincorrersi furioso e caotico degli strumenti, spezzato da un improvviso silenzio, ci porta alla vera highlight del disco, la title track "In The Darkness", lenta come i passi inesorabili della morte, cesellata da una chitarra sulfurea e malinconica che supporta la voce sperduta e riverberata di Paul, che sa invece farsi aggressiva nel refrain, dove anche la sua chitarra decolla in un riff deciso ancorchè lento ed evocativo: insomma il Doom Metal di Paul Chain nella sua essenza più pura, una canzone superba, conclusa da un sussurro morente dell'autore e che non a caso sarà ripresa, come anche "Welcome To My Hell", da Steve Sylvester in "Black Mass", che non ne altererà il titolo e presenterà così entrambi i pezzi come degli omaggi al suo vecchio socio.

Concludendo, ribadisco che questo è un ottimo disco, in grado di evocare atmosfere ferali e malinconiche e di trascinare l'ascoltatore veramente nell'oscurità, un'oscurità pesante come le nostre paure quando sentiamo sulla nostra spalla il freddo della mano ossuta della Morte ghignante, e tutto attorno diventa nero e guardando la nostra vita vediamo solo una teoria di immagini e ricordi senza significato. Lo consiglio ad un pubblico molto vario, come del resto è il genere proposto dall'autore, ma soprattutto a tutti gli amanti del Rock in stile Black Sabbath e in particolare del Doom, ricordando ancora una volta che Paul Chain è un talento italiano da riscoprire e conoscere, un vero artista, ma soprattutto un artista VERO.

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